LEditoriale

Dopo le stragi di Parigi. Non basta essere Charlie

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:13 gennaio 2015

Non posso nascondere un forte disagio rispetto all’unanimismo verificatosi a Parigi. La bontà contro il male. Ma non siamo tutti buoni.

Di fronte al terrorismo di matrice islamica, si pongono alcuni problemi secondo me ineludibili.

Torna alla mente il dibattito lacerante che vi fu, agli inizi degli anni ’70, sul terrorismo delle Brigate Rosse. Anche allora vi fu chi, a sinistra, parlò di “compagni che sbagliano”.

Quella definizione poneva due questioni: se si potesse parlare di “compagni” e se si poteva parlare di uno “sbaglio”. Se cioè quei terroristi potessero essere considerati parte del movimento operaio, e se le loro azioni potessero essere considerate solo uno “sbaglio” da condannare.

Fu dura arrivare alla conclusione che nulla poteva aversi a che fare con i terroristi, che essi pur richiamandosi alla classe operaia e alla sua tradizione ne erano nemici esistenziali, che le loro idee e le loro azioni dovevano essere respinte, isolate e sconfitte. Ci volle il sacrificio di uomini come il sindacalista Guido Rossa, per scavare un solco invalicabile tra BR e movimento operaio.

Ancora più difficile fu fare i conti con noi stessi, con le radici ideologiche del brigatismo, scavare le connessioni con le opzioni violente contenute nel leninismo, e che risalivano fino al Robespierre della Rivoluzione francese. Un lungo filo rosso che poteva portare fino ai massacri di Pol Pot, in Cambogia. Sono dinamiche interne a quella tradizione, che non la esprimono ma ne sono parte. Fu difficile farlo, ma bisognava guardare la medusa in faccia. Maestri come François Furet, con il suo ultimo grande libro “Le passé d’une illusion”, del ’95, ci hanno aiutato a affrontare questa sfida, che non può dirsi vinta.

Molto poco di un processo simile si intravede nel dibattito in corso nel mondo musulmano. Certo, vi sono molte associazioni islamiche che condannano gli attentati di Parigi o le gesta atroci di Al Qaeda o di ISIS o dei Boko Aram, ma continuano a considerarli “fedeli che sbagliano”, non nemici da combattere. Non mi risulta che questi gruppi siano ritenuti tali neanche da centri moderati del pensiero islamico come la centenaria università egiziana di al-Azhar, una dei più eminenti centri dell’Islam sunnita. Manca una riflessione e una sui germi di violenza che sono contenuti nella tradizione islamica e nello stesso Corano, e che sono incompatibili con una visione aperta e pluralistica della società contemporanea.

A me va stretto che in questi giorni l’appello ad una profonda riforma dell’Islam venga solo dal Presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi, in un ambizioso discorso teso a proporlo come un modernizzatore dell’Islam e volto a purgare l’Islam dalle idee estremiste di intolleranza e di violenza che sono alimentati da gruppi come Al Qaeda o lo Stato Islamico.

D’altronde, è vero che germi di violenza albergano nella tradizione delle diverse religioni monoteistiche, ma oggi la questione investe in primo luogo i musulmani. Come ha affermato Papa Francesco di fronte al corpo diplomatico accreditato in Vaticano, invitando gli islamici a far sentire la loro voce contro le violenze: «Nel sollecitare la comunità internazionale a non essere indifferente davanti a tale situazione, auspico che i leader religiosi, politici e intellettuali specialmente musulmani, condannino qualsiasi interpretazione fondamentalista ed estremista della religione, volta a giustificare tali atti di violenza».
All’Europa spetta un compito peculiare: “Poiché il terrorismo islamitico, scrive Stefano Levi Della Torre, più ancora che contro l’Europa, è guerra civile intra islamica, le opportunità e la valorizzazione offerta a chi è d’origine musulmana in Europa non è solo una prospettiva etica, ma un fattore strategico affinché la linea di demarcazione non passi tra mussulmani e non, come vogliono i terroristi e la destra, ma tra il terrorismo islamitico e quanti, islamici o meno, siano interessati o re-interessati alle culture della democrazia e del diritto. In particolare della persona e delle donne.”

Si comprende infine l’esigenza di affermare “Siamo Charlie”, per fare muro contro la violenza. Ma questo non deve annullare le diversità di opinione, anche rispetto alle idee di Charlie Hebdo, che si deve avere la libertà di non condividere e anche di respingere, per il loro carattere provocativo verso le diverse religioni, nel momento stesso in cui si condanna il vile e sanguinoso attentato che li ha colpiti. In verità, come scrive ancora Stefano Levi Della Torre, “la satira non è esente da responsabilità etiche e politiche. La libertà è responsabile, non irresponsabile come sostiene l’ideologia liberistica, che in questa forma affiora nella stessa sinistra ultra-libertaria.”
Né si deve nascondere le differenze tra le diverse religioni, e con chi religioso non è, in un indistinto calderone buonista che rischia di occultare o almeno annebbiare le contraddizioni più vere.

Ancora una nota: l’emozione e la solidarietà del mondo si sono concentrati molto più sull’attacco a Charlie Hebdo che su quello al quartiere ebraico, che doveva includere anche un attentato contro i bambini di scuola materna, «Per vendicare quelli palestinesi uccisi a Gaza», come ha affermato il terrorista Coulibaly. Un attentato fortunatamente andato a vuoto per il sacrificio di una poliziotta francese. L’hashtag “Je suis juif” non si è diffuso come quello «Je suis Charlie». Anche questo, non nascondiamocelo, un frutto avvelenato della sovrapposizione tra irrisolto conflitto israelo-palestinese e risorgente antisemitismo.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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