L’Editoriale

Il riconoscimento dello Stato di Palestina al Parlamento Italiano. Tanto rumore per nulla

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:18 febbraio 2015

Il dibattito sul riconoscimento dello Stato palestinese è arrivato anche nel Parlamento italiano e giovedì dovrebbe esserci il voto. Alla Camera dei Deputati sono in discussione diverse mozioni, l’una di SEL, l’altra dei Cinque Stelle, la terza presentata da Pia Locatelli del Gruppo Misto. Manca una proposta del PD, che si è riservato di avanzarla in questi giorni. Stupisce un po’, francamente, che intorno a questa questione ci si arrovelli tanto.

L’Italia ha votato a favore del riconoscimento della Palestina come Stato Osservatore non membro, nella Assemblea Generale dell’ONU del novembre 2012. Si trattò di una decisione non scontata, presa grazie al decisivo intervento dell’allora Presidente Giorgio Napolitano e contro il parere del Ministro degli Esteri Terzi, che era per l’astensione. Quella fu la decisione politicamente rilevante. Questa di oggi è una decisione per così dire derivata, che non dovrebbe causare eccessivi turbamenti. Il Governo di Svezia, ed i parlamenti di Gran Bretagna, Irlanda, Francia, Spagna, Portogallo si sono già pronunciati a favore del riconoscimento dello Stato palestinese, insieme allo stesso Parlamento Europeo, che ha votato a favore del riconoscimento il 17 dicembre scorso.

Il punto delicato è quello del link che si vorrebbe stabilire tra riconoscimento della Palestina e ripresa del processo negoziale: se il collegamento diventa una precondizione, di fatto diviene una sorta di “Comma 22”: si tratta come è noto di un immaginario articolo di regolamento, contenuto nell’omonimo libro di Joseph Heller su un gruppo di piloti USA della seconda guerra mondiale, che recitava: “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”.

Analogamente, qui si rischia il paradosso di dire che non ci può essere riconoscimento dello Stato palestinese se non c’è processo di pace, ma poiché non c’è processo di pace non si può riconoscere lo Stato palestinese.
Si possono ovviamente trovare formulazioni ambigue (l’ambiguità regola i rapporti nel Medio Oriente), come quella della mozione del Parlamento Europeo che “sostiene in principio il riconoscimento dello Stato palestinese e la soluzione a due Stati, e ritiene che essi dovrebbero andare mano nella mano con lo sviluppo dei colloqui di pace, che dovrebbero andare avanti”. Oppure, come pare preferire il Partito democratico, il riconoscimento può essere proposto “nel quadro” o anche “nell’ottica” della ripresa del processo negoziale.

Dietro l’atteggiamento un po’ esitante del Governo italiano e del Partito democratico vi è probabilmente la volontà di attenersi alle indicazioni provenienti dalla Amministrazione USA, che vuole bloccare ogni mossa fino al 17 marzo per non dare esca al vittimismo di Netanyahu.

Ma occorre prendere atto del fatto che, dopo il fallimento della Iniziativa del Segretario di Stato John Kerry, nell’aprile 2014, gli Stati Uniti, per considerazioni soprattutto di politica interna, hanno in larga misura perso la “spinta propulsiva” nella ricerca della soluzione del conflitto israelo-palestinese. Anche se la cooperazione tra Europa e USA resta desiderabile e essenziale, l’Europa deve acquisire uno spazio più autonomo di iniziativa, scostandosi dal mantra “Niente senza gli Stati Uniti”. Una iniziativa europea può proporre cose che gli Stati Uniti forse vorrebbero, ma non possono proporre, per le già ricordate considerazioni interne.

Una iniziativa europea verso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che parta dai risultati che l’Iniziativa Kerry aveva raggiunto, sul tema dei confini e su quello della sicurezza, integrandola negli aspetti irrisolti, quale quello dei rifugiati e soprattutto quello di Gerusalemme come capitale condivisa dei due Stati, potrebbe questa volta trovare la non ostilità, se non addirittura l’accordo, degli Stati Uniti, aprendo la strada ad una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Non casualmente, è proprio questa l’ipotesi che in questi giorni è stata avanzata da Martin Indyk, che è stato l’Inviato Speciale USA per il Medio Oriente, a fianco di Kerry. Egli ha ipotizzato che, dopo le elezioni israeliane, siano i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza a presentare una proposta di risoluzione, con le linee guida per il superamento del conflitto.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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