L’Editoriale

Obama in Israele: il puzzle Medio Oriente

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:  20 marzo 2013

Obama arriva oggi in Israele, per proseguire poi verso la Palestina e la Giordania. La visita suscita numerosi interrogativi. Si tratterà, come sostiene Thomas Friedman sul New York Times, di una visita turistica, per soddisfare un hobby ritrovato? O invece si tratterà della visita di “Obama II, la vendetta”, con un Obama appena rieletto, deciso a far pagare tutti gli affronti del passato al Premier israeliano Netanyahu?

Si pensava che dopo i fallimenti del primo mandato si sarebbe tenuto decisamente alla larga dall’Area, salvo le esternazioni di rito sulla necessità di una soluzione “Due Stati Due popoli”, della creazione di uno Stato palestinese, delle garanzie di sicurezza di Israele con cui i legami USA restano “infrangibili”, e salvo la continuazione dei veti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU contro risoluzioni troppo forti di condanna per i comportamenti dello Stato ebraico. Una “benigna negligenza”, come è stata definita, destinata però a restare in superficie, a non incidere davvero in quella tormentata realtà.

Il Presidente Usa ha deciso invece di cominciare ad affrontare proprio questo dossier, sorprendendo tutti gli analisti internazionali.  Ma l’approccio appare profondamente diverso. Sono lontani i tempi del discorso del Cairo nel giugno 2009, quando cercò di dettare all’alleato recalcitrante i “terms of reference” del possibile negoziato, chiedendo perentoriamente, ma senza risultati, il blocco totale degli insediamenti ebraici. Una ricetta prescritta senza neanche mettere piede in Israele, che Obama aveva visitato solo da candidato.

Ora il Presidente USA dichiara di venire in Medio Oriente (ma soprattutto in Israele) innanzi tutto “per ascoltare”, per capire e per ricevere proposte, sull’Iran, sulla Siria e sul dossier palestinese. Su Siria e Iran, i dissensi non dovrebbero essere profondi.

Ma anche sui palestinesi, l’atteggiamento è cambiato, meno impositivo, più deciso a rivolgersi alla popolazione israeliana. Non a caso ha deciso di parlare agli studenti, non alla Knesset, sorprendendo i suoi interlocutori israeliani.

D’altronde, le elezioni hanno evidenziato un Israele profondamente cambiato, concentrato su sé stesso e sui problemi interni: la coscrizione obbligatoria per i religiosi, la riforma elettorale, il costo della vita sempre più intollerabile. Su queste basi si è saldata una alleanza destra-sinistra, che ha costretto il Premier Netanyahu, uscito fortemente indebolito dalle urne, ad accettare le sue proposte di modernizzazione e secolarizzazione del paese e ad estromettere i partiti religiosi ortodossi dal Governo.

La destra interna ed esterna al Likud controlla posizioni chiave nel nuovo governo, dalla Esteri alla Difesa agli Interni al Ministero delle Costruzioni, e contrasterà risolutamente ogni tentativo di nuova moratoria degli insediamenti, per non parlare di possibili evacuazioni di quelli più remoti.

Tuttavia, non si può trascurare che il centro-sinistra è uscito complessivamente rafforzato dalle elezioni, ed i partiti di governo che si richiamano a quell’area possono contare su 25 parlamentari (su un totale di 68 della maggioranza), rispetto ai 5 del precedente governo.

Lo stesso incarico dato a Tzipi Livni, Ministro della Giustizia, di Presiedere il Comitato incaricato di negoziare con i palestinesi, pur sotto il controllo del Premier e della Knesset, è significativo, e certo Obama guarda ad esso con interesse.

D’altronde, anche i palestinesi non sono messi bene, dilaniati come sono tra Al Fatah e Hamas, tra Cisgiordania e Gaza. La leadership della Autorità palestinese, guidata dal Presidente Mahmoud Abbas, pare ripiegata su sé stessa e incapace di sfide coraggiose.

“Dobbiamo cambiare il nostro approccio e comprendere che ora non ci sono possibilità per un accordo permanente”, sostiene il grande politologo israeliano Shlomo Avineri. Quindi, aggiunge, gli sforzi diplomatici devono essere concentrati su strade alternative, accordi interimari, misure per costruire la fiducia, con passi anche unilaterali (ma reciprocamente accettati) e continua cooperazione prammatica sul terreno. Si tratta di passare dal tentativo fallito di ottenere una soluzione complessiva a passi parziali per gestire il conflitto, pur mantenendo fermo l’orizzonte diplomatico di una soluzione “due stati per due popoli”.

L’ipotesi più probabile, su cui lavorerà Obama, è che si cerchi dunque di gestire il conflitto, visto che non si è in grado di risolverlo, con qualche passo che possa creare una atmosfera più distesa tra le parti, preparando così tempi migliori: il rilascio dei prigionieri palestinesi di più vecchia data, un più alto numero di palestinesi ammessi a lavorare in Israele, la attenuazione delle barriere alla circolazione delle merci e degli uomini dentro alla Cisgiordania e alla frontiera con Israele, la continuazione della cooperazione in materia di sicurezza. Persino il passaggio alla Autorità palestinese di altre “aree C” della Cisgiordania, ora sotto totale controllo israeliano. Molto di più non riuscirà a pretendere.

Questa analisi è stata pubblicata sull’Huffington Post.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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