L’Editoriale

Obama in Medio Oriente: tutti i risultati (e le questioni in sospeso) di una visita storica

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:  24 marzo 2013

La ripresa dei rapporti tra Israele e Turchia rappresenta un risultato di grande rilievo, e suggella con un colpo ad effetto la visita di Obama in Medio Oriente. La descrizione che il New York Times dà dell’avvenimento è significativa: il Presidente che chiama il Primo Ministro Turco, Erdogan, da un caravan parcheggiato in aeroporto, pochi minuti prima di partire per la Giordania, ci parla e gli passa Netanyahu, che gli esprime le sue scuse per l’incidente avvenuto nel maggio 2010, quando il battello Navi Marmara che cercava di rompere il blocco di Gaza venne attaccato dalle truppe israeliane, causando la morte di 9 attivisti turchi. Alle scuse si accompagna la promessa di riparazioni alle famiglie dei caduti. I due premier hanno espresso la volontà di ristabilire normali relazioni diplomatiche, anche se il processo richiederà ancora del tempo.

Per gli USA, questo costituisce un risultato di primaria importanza: in un Medio Oriente in preda ad una difficile transizione, con i nuovi governi guidati dalla Fratellanza Musulmana che stanno facendo un difficile e problematico tirocinio, sul terreno della democrazia e del pluralismo ma soprattutto su quello economico; mentre si avvicina l’ora della verità con l’Iran e mentre la crisi siriana si acutizza di giorno in giorno e tende a espandersi anche in Libano, poter contare su due punti fermi di riferimento, in grado di collaborare tra loro, come Israele e Turchia, è strategicamente essenziale.

Erdogan ha ottenuto quel che voleva, le scuse e le riparazioni di Israele. Ma la ripresa dei rapporti con lo Stato ebraico esprime una esigenza più di fondo, quella di rimodulare la sua politica di “buon vicinato” , messa in crisi dalla rottura col regime del siriano Assad; e con il conseguente raffreddamento delle relazioni anche con l’Iran, primo sostenitore di quel regime, guardato con sospetto anche per il suo ambiguo programma nucleare.

Inoltre, esistono convergenti interessi militari: non a caso nei mesi scorsi si erano registrati segni di apertura in questo campo, con la caduta del veto turco alla partecipazione di Israele ad esercitazioni NATO, e lo sblocco da parte israeliana della fornitura di importanti armamenti strategici alla Turchia, propiziato dagli USA. Soprattutto vi è l’interesse primario, per Israele, di poter contare sulla possibilità di poter attraversare lo spazio aereo turco, nel caso si arrivi alla determinazione di colpire i siti nucleari iraniani.

Infine, vi è lo sfruttamento delle imponenti risorse di gas scoperte nel Mediterraneo, ove invece della competizione può essere proficua per tutti la più stretta cooperazione.

Per Netanyahu non deve essere stato facile pronunciare, in un modo così eclatante, quelle scuse che si era rifiutato di dare in tutti questi anni. Certo, ha pesato la pressione USA e quella di Obama in questi giorni, ed il diverso clima creatosi con il leader USA. Ma ha influito certo la consapevolezza della necessità vitale di ritrovare la collaborazione con la Turchia, ora che, con il quadro regionale dominato dai diversi governi islamici, l’isolamento israeliano cresce, e con la perdita dell’alleanza strategica con l’Egitto.

L’apertura di Netanyahu è stata favorita dalla diversa composizione del suo nuovo governo, che vede un rafforzamento delle componenti di centro-sinistra, e dall’assenza dal governo dell’ex ministro degli Esteri Lieberman, in attesa di definire le sue pendenze giudiziarie.

Il risultato raggiunto con la Turchia non deve tuttavia mettere in secondo piano i risultati più complessivi della visita di Obama. L’approccio ricercato è stato l’esatto opposto di quello del discorso del Cairo del 2009: egli si è rivolto con grande rispetto ai leader di Israele, ed ha parlato alla sua opinione pubblica, a cominciare dai giovani, partendo dai punti che più sapeva stare a cuore ai suoi interlocutori. Sull’Iran ha indurito i toni, affermando che nessuna opzione è esclusa e che il tempo a disposizione è limitato. Ha riaffermato con grande vigore l’impegno degli Stati Uniti alla sicurezza di Israele, accompagnando le sue affermazioni con l’impegno a continuare a garantirla concretamente; ha fatto propria la definizione di Israele come Stato ebraico, la cui nascita non deriva solo dalla tremenda esperienza dell’Olocausto, e ha testimoniato questa convinzione con la visita alla tomba del fondatore del Sionismo, Teodoro Herzl.

Da questi punti fermi è partito, per riproporre l’esigenza di una soluzione del conflitto israelo- palestinese, basato sulla soluzione due stati due popoli, non come decisione imposta dall’esterno, ma come necessità propria della società israeliana: questo anche in considerazione delle attuali tendenze demografiche dei due popoli, che possono mettere in discussione il suo carattere ebraico e democratico. Egli ha chiesto ai giovani che lo ascoltavano di mettersi “nelle scarpe dell’altro”, secondo il precetto biblico, di pensare alla vita che fanno i giovani palestinesi, tra difficoltà economiche, blocchi stradali, misure di sicurezza, restrizioni alla libertà di movimento. Ha definito gli insediamenti israeliani come dannosi per la pace, pur non facendone una pregiudiziale per la ripresa del negoziato.

I palestinesi, da parte loro, sono certamente rimasti perplessi per l’enfasi posta sull’interlocutore israeliano e per la parte residuale che è stata riservata loro, nonché per l’abbandono della richiesta pregiudiziale di congelamento degli insediamenti. Nonostante ciò hanno deciso di assumere un atteggiamento di attesa per vedere meglio lo sviluppo della situazione.

Obama ha fornito le linee guida di una soluzione possibile, ma questo non significa che le trattative potranno ricominciare subito e facilmente. La pace è compito dei due popoli, la comunità internazionale può solo aiutare. E’ quel che si accinge a fare il Segretario di Stato, John Kerry, che già in questi giorni si incontrerà con Netanyahu e il Presidente palestinese Abbas, per discutere le future tappe possibili.

Questo articolo è stato pubblicato sull’Huffington Post, nel blog di Janiki Cingoli

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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