L’Editoriale

Obama e Putin, la strana coppia

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:17 settembre 2013

Obama ha saputo districarsi, almeno per il momento, dalla trappola in cui si era cacciato ponendo una linea rossa in Siria, rispetto all’uso delle armi chimiche: linea rossa che aveva finito per ritorcersi in primo luogo contro di lui. Sia pure attraverso contraddizioni e ondeggiamenti, ha scelto di fermarsi e di intraprendere la via di un accordo congiunto con la Russia, per imporre alla Siria la consegna e la distruzione delle armi chimiche, attraverso un percorso difficile, contrastato e incerto, ma che comunque costituisce una alternativa migliore dell’attacco armato.

Questa svolta ancora iniziale del presidente Usa esprime tuttavia uno sviluppo di portata più ampia rispetto allo specifico della crisi Siriana.

Al fondo, vi è la consapevolezza che l’unilateralismo di impronta reaganiana è finito senza possibilità di resurrezione, che gli Usa non hanno più i mezzi e la possibilità di decidere da soli le sorti del mondo e di imporre le loro soluzioni alle crisi che si manifestano.

Una consapevolezza che Obama ha manifestato subito, fin dalla sua prima elezione, ma che in questi mesi è arrivata ad una maturazione più complessiva e definitiva. Così le incertezze, i bruschi stop and go, la continua ricerca di vie alternative e i tentativi di guadagnare tempo, che certo non hanno accresciuto la sua credibilità internazionale, erano in realtà espressione della convinzione che la via dell’intervento armato rischiava di provocare una crisi non maneggiabile, le cui conseguenze potevano essere imprevedibili.

Ovviamente, la minaccia credibile del ricorso all’attacco militare veniva utilizzato per fare pressione e sbloccare le resistenze; ma la soluzione a cui il Presidente Usa puntava era l’altra, diplomatica e multilaterale.

Nei giorni successivi all’annuncio della proposta russa e della accettazione Usa sono venuti alla luce i particolari sui contatti che hanno preceduto e resa possibile la svolta, che hanno avuto inizio sin dai giorni del G20 a San Pietroburgo, mentre in pubblico i rapporti tra i due leader erano apparsi tesi e concorrenziali.

Usa e Russia hanno dovuto in larga misura svincolarsi dalle pressioni dei loro protetti, gli uni riguardo a quella congerie disgregata degli insorti, tra cui prevalgono oramai le formazioni qaediste e jihadiste; l’altra costringendo Assad a confessare il possesso di quelle armi chimiche di cui aveva sempre negato l’esistenza e a chiedere l’adesione alla Convenzione sulle Armi Chimiche.

Per parte sua, Putin ha scelto di giocare fino in fondo la carta del nuovo ruolo internazionale della Russia, ma per far questo ha compreso che non poteva limitarsi ad una difesa passiva della sua area di influenza, delle sue basi militari e dei suoi alleati, ma che doveva misurarsi in campo aperto, ponendosi come interlocutore credibile e leader ineludibile della Comunità internazionale.

La sua bussola è stata quella di evitare di fare come in Libia, quando l’astensione russa al Consiglio di Sicurezza ha aperto il varco all’intervento armato dell’Occidente, provocando la caduta e l’uccisione di Gheddafi e la fine di ogni capacità di influenza russa nel paese.

L’accordo tra le due potenze dovrà ora essere definito e incardinato nelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, per la cui definizione sono da prevedersi forti tensioni. La partnership che si va delineando non è infatti una partnership tra soci, ma una partnership concorrenziale, dura e senza sconti, come testimonia anche l’articolo di Putin apparso sul New York Times.

D’altronde, è evidente che l’accordo sulle armi chimiche, già di per sé di difficilissima attuazione, non sarà comunque sufficiente a risolvere la crisi siriana: basti considerare che i morti per queste armi rappresentano meno dell’1% del totale degli oltre 100.000 morti avutisi finora a causa della guerra civile in quel paese. Se anche si riuscisse a distruggere le armi chimiche, lasciando che regime e insorti continuino a massacrarsi con le armi convenzionali, questo non sarebbe un gran risultato.

L’elemento di novità, tuttavia, è che è finito lo stallo nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che Usa, Russia e gli altri membri sono in grado di confrontarsi nel merito, e non per partito preso.

L’apertura che si è determinata sulle armi chimiche può quindi portare ad altri sviluppi, che sono assolutamente necessari e ineludibili. La soluzione può infatti essere trovata solo in un accordo politico, che consenta la convivenza di tutte le componenti della popolazione siriana, sunniti, alawiti, cristiani, kurdi, con la formazione di un governo unitario di transizione, senza la partecipazione di Assad, di cui tuttavia si dovrà probabilmente assicurare la fuoriuscita pacifica con la sua famiglia.

E’ questo il piano, cui starebbero lavorando Russia e Usa, in stretto collegamento con lo stesso Iran, diretto dal nuovo Presidente Rohani. Verso Teheran si moltiplicano i segni di attenzione di Washington. Nelle settimane scorse si è avuta notizia di una attenuazione delle sanzioni in alcuni settori umanitari e nel campo dello sport.

Obama, nella sua recente intervista ripresa anche da La Stampa, cita ripetutamente il ruolo che l’Iran può svolgere per uno sviluppo positivo della crisi, e rivela di aver avuto uno scambio di lettere con lo stesso Rohani.

La soluzione diplomatica della crisi siriana viene visto da entrambe le parti come un modello che potrebbe in prospettiva essere applicato anche per affrontare e dirimere la controversia sul programma atomico iraniano. E’ significativo che anche Israele, pur manifestando scetticismo, non protesti per la piega che stanno prendendo le cose.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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