L’Editoriale

Dopo il viaggio di Obama in Medio Oriente: può ripartire il processo di pace?

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:10 aprile 2013

In occasione dell’incontro, promosso dal CIPMO insieme allo IAI, grazie al sostegno del Ministero degli Esteri Italiano, sul tema “Dopo il viaggio di Obama in Medio Oriente: Può ripartire il Processo di Pace?” a Roma è stato redatto un paper a cura di Janiki Cingoli, Direttore CIPMO, che pubblichiamo.

1.Le premesse

1.1 I palestinesi
Il voto dell’Assemblea Generale dell’Onu, che ha riconosciuto la Palestina quale Stato Osservatore non Membro, anche se non ha prodotto effetti immediati in assenza di una ratifica del Consiglio di Sicurezza, ha tuttavia dato all’Anp la possibilità di adire gli organismi internazionali quali la Corte Internazionale dell’Aia, e di chiedere l’ammissione ad altri organismi, come è già avvenuto con l’Unesco.

Ma soprattutto ha sancito l’accresciuto isolamento internazionale di Israele, con soli 7 Stati che hanno votato contro, inclusi Israele e gli Usa, ed un netto spostamento della maggior parte dei paesi europei, inclusa l’Italia, verso il voto favorevole o l’astensione.

L’Anp sta tuttavia attraversando una fase di gravissima crisi economica, dovuta anche alle ripercussioni del voto all’Onu da parte israeliana e Usa, ed anche il dialogo con Hamas per giungere alla ricomposizione interpalestinese ristagna. Il Governo di Hamas a Gaza appare consolidato, anche per i crescenti riconoscimenti da parte dei governi arabi, ed il suo leader, Meshaal, è stato in questi giorni riconfermato alla guida dell’organizzazione per i prossimi 4 anni, ed ha posto la sua candidatura alla Presidenza della stessa Olp, una volta riformata.

1.2 Israele
Il risultato delle elezioni in Israele ha segnato da un lato uno spostamento di voti a favore dell’area di centro e di sinistra, con un netto calo della coalizione Likud Beitenu, ma ha contemporaneamente evidenziato la crescente focalizzazione dell’opinione pubblica sulle problematiche interne al paese, dalla richiesta di estendere la coscrizione obbligatoria ai giovani religiosi ortodossi, alla spinta ai processi di liberalizzazione dell’economia, alla preoccupazione per il caro vita, dagli alimentari alle abitazioni. Lo stesso processo di estensione degli insediamenti, che drena imponenti risorse anche per garantire la sicurezza, viene oramai percepito come un peso aggiuntivo e non come una risorsa da perseguire.

Il Governo formatosi rispecchia questo orientamento: per la prima volta da molti anni i partiti religiosi ortodossi ( Shas e Degel Hatorah) sono fuori dal governo, a causa dell’alleanza modernizzatrice stabilitasi tra i due veri vincitori delle elezioni, Yair Lapid, neo-Ministro delle Finanze, carismatico leader di Yesh Adit (19 seggi), il nuovo partito laico di centro-sinistra; e il falco di destra Naftali Bennet, nuovo Ministro dell’Economia e del Commercio, leader del Partito sionista religioso Habayit Hayehudi (12 seggi): In totale, 31 seggi, quanto Likud Beitenu, che però ne ha persi 11 rispetto alle precedenti elezioni.

La convergenza tra Lapid e Bennet è però limitata agli aspetti interni, cui danno assoluta priorità. Sul conflitto israelo-palestinese, Bennet ha proposto l’annessione del 60% della Cisgiordania, mentre Lapid sostiene, senza forzare troppo, la necessità di far ripartire il processo di pace. L’accordo tra i due quindi è legata all’arco temporale necessario per fare le riforme a partire da quella della leva per i religiosi, poi i loro interessi potrebbero divergere, e potrebbero riaprirsi le condizioni per una diversa maggioranza includente i religiosi e il Labour, se le tensioni con Bennet dovessero crescere oltre misura.

Per il momento, Bennet accetta che si parli del processo di pace, perché è convinto che non si andrà avanti, e Lapid si accontenta che si parli del processo di pace, perché questo è sufficiente per la sua immagine.

Altro elemento interessante è la presenza di Tzipi Livni (leader del nuovo partito HaTnuah, 6 seggi), Ministro alla Giustizia con delega al negoziato con i palestinesi, che è stata l’unica in campagna elettorale a impegnarsi specificamente su questo terreno.

I partiti di Centro-sinistra al governo raggiungono 25 seggi, rispetto ai 5 del governo uscente.
Netanyahu svolge come di consueto un ruolo di ago della bilancia, ma è molto indebolito e non può dettar legge.

2.Israele. Il nuovo approccio di Obama

La visita di Obama è stata programmata e si è svolta in questo nuovo contesto. Si può parlare di un approccio completamente rovesciato rispetto a quello del discorso del Cairo del giugno 2009: allora scelse di parlare dall’esterno, da un paese arabo, ad Israele e al suo leader, dettando i termini da seguire per arrivare alla pace, a partire dal blocco totale degli insediamenti ebraici.

Questa volta ha scelto di parlare dall’interno, da Israele, cercando di immedesimarsi nella sua anima e nei suoi problemi, e facendo scaturire da questo approccio l’esigenza di fare la pace con i palestinesi. Non ha presentato un nuovo piano di pace, ha offerto un framework generale, lasciando ai contendenti l’onere e la responsabilità di arrivarci.

Il Presidente ha cercato di immedesimarsi con la identità ebraica del paese, dall’eredità sionista (la visita alla tomba di Theodor Herzl), alla memoria dell’Olocausto, col pellegrinaggio a Yad Vashem, alla visita alla tomba del Primo Ministro Yitzhak Rabin, assassinato mentre cercava di costruire la pace.

Nel discorso ai giovani, ha fatto sua la definizione di Israele come Stato ebraico, ha ricordato il rito pasquale del Seder che ogni anno ha scelto di celebrare alla Casa Bianca. Ma è proprio partendo da questo approccio ha tratto la forza per chiedere agli israeliani di mettersi nelle scarpe dell’Altro, nella pena dei giovani palestinesi impossibilitati a muoversi, a vivere in libertà, a guardare al futuro con speranza. Sugli insediamenti, ha detto che essi sono dannosi per il processo di pace, ma non ha dato ultimatum.

Ha sottolineato i rischi del crescente isolamento del paese, anche in termini di sicurezza. Ha evidenziato come anche i grandi successi economici del paese trovino un limite nel perdurare del conflitto, che impedisce ad Israele di diventare un grande hub tecnologico regionale e globale. Soprattutto ha fatto scaturire la necessità di arrivare alla soluzione due Stati due popoli dalla esigenza più profonda di Israele, se esso vuole restare una democrazia ebraica (richiamando qui le posizioni del demografo italo-israeliano Sergio Della Pergola, secondo cui Israele non può essere al contempo grande, democratico e ebraico, date le tendenze demografiche della popolazione ebraica e di quella palestinese). Ha parlato come un sionista di sinistra, ha osservato Nahum Barnea, il grande giornalista israeliano.

3. La reazione palestinese
E’ ovvio che i palestinesi non abbiano gradito questo spostamento dell’approccio di Obama, anche se guardano positivamente alla ripresa delle trattative. Si sono sentiti trattati in modo residuale, per il tempo limitato loro concesso, non hanno apprezzato che sia stata lasciata cadere la richiesta preliminare di blocco degli insediamenti. La risposta di Obama è stata che le pregiudiziali non possono anticipare il risultato della trattativa, e che una ripresa accelerata del negoziato sui confini è il modo migliore per dare risposta al problema.

Il Presidente ha portato con sé lo sblocco di 500 milioni di dollari, che erano stati fermati dal Congresso USA dopo il riconoscimento della Palestina come Stato non Membro da parte della Assemblea generale dell’ONU, ed ha anche indotto Netanyahu a riprendere l’erogazione dei proventi doganali che erano stati bloccati per lo stesso motivo. Si può dire che i palestinesi siano ora in stato di attesa, per vedere quali passi potrà portare John Kerry per convincerli a tornare al tavolo della trattativa.

4. Il passaggio in Giordania
Il passaggio in Giordania (con un pacco dono di 200 milioni di dollari per l’assistenza ai profughi siriani), è servito a sottolineare e rafforzare il ruolo che gli USA attribuiscono alla Monarchia hashemita, come fattore di stabilità e di almeno iniziale democrazia in un contesto regionale così perturbato.

5 I risultati della visita

5.1 La riconquista di Israele 
Si può affermare che il primo risultato della visita è il ricostruito rapporto con lo Stato ebraico. Barnea è arrivato a sostenere che la visita non è servita a risolvere il conflitto con i palestinesi, ma quello con Israele, a cominciare da quello con il suo leader, Netanyahu, dopo gli scontri e i rispettivi sgarbi del passato. I due hanno passato insieme oltre 9 ore, in tre successivi incontri, andando in profondità nello scambio di valutazioni e di proposte. Quanto all’opinione pubblica israeliana, nota ancora Barnea, essa ora è in maggioranza convinta che Obama è un amico, “anche se un po’ naif”. In effetti, i sondaggi hanno segnalato uno spostamento di circa il 20% da coloro che lo consideravano più filo-palestinese a coloro che lo considerano più amico di Israele.

5.2 La ripresa dei rapporti Israele – Turchia
L’altro grande risultato è certamente il superamento sia pur non ancora completo della rottura tra Turchia e Israele: esso era stato perseguito con tenacia già nei mesi passati, e è stato sottolineato con grande evidenza dalle modalità con cui esso è stato realizzato e comunicato. La sua importanza va rapportato al più ampio contesto regionale: Turchia, Israele e sia pure in minor misura la Giordania costituiscono punti di riferimento prioritari per la politica Usa nell’Area, tanto più preziosi se si considerano le tre aree di crisi su cui si concentra l’attenzione Usa nella Regione:

La situazione di incertezza, le contraddizioni e le gravi difficoltà incontrate dai Governi emersi dalla Primavera araba e guidati dalla Fratellanza Musulmana: in particolare dall’Egitto del Presidente Morsi, con cui pure Obama aveva cercato di avviare un rapporto privilegiato, offrendo una cauta apertura di credito. La guerra civile siriana e i rischi di coinvolgimento dei paesi limitrofi (Libano, Giordania, Turchia, Iraq e Israele). Il confronto in atto con l’Iran, per contenere il suo programma nucleare ed evitare che esso evolva verso usi militari.

5.3 La rimessa in moto della situazione
Infine, si può affermare che la visita è servita a rimettere in movimento la situazione, anche se non si è giunti alla ripresa del negoziato. Questo è il compito di John Kerry, il nuovo Segretario di Stato Usa, che ha già compiuto tre visite nella Regione, la prima a seguire la visita di Obama e l’ultima nei giorni scorsi.

6. Confidence Building Measures e ripresa del negoziato
La prima questione è come si potrà convincere i palestinesi a tornare al tavolo delle trattative, anche se da parte israeliana si sottolinea come le concessioni non possano essere a senso unico.
E’ importante tuttavia notare come le Confidence Building Measures non sono più concepite come preliminari e condizionanti la ripresa del negoziato, come nella Road Map, ma come un elemento di facilitazione e di accompagnamento al suo svolgimento.

Si parla del possibile rilascio dei prigionieri più vecchi, antecedenti agli accordi di Oslo (in proposito si deve notare una dichiarazione di Bennet, che, dichiarandosi contrario a ogni moratoria sugli insediamenti, si dichiarava invece disposto a prendere in considerazione la liberazione di prigionieri); quanto agli insediamenti, secondo Le Monde e la catena televisiva israeliana Channel 10, nei colloqui a due Netanyahu avrebbe in effetti accettato un “congelamento non annunciato” nella zona detta E1 e nelle colonie selvagge più esterne, fuori dai grandi blocchi. Una ipotesi, questa del “blocco non detto”, ipotizzata anche dal Presidente Mahmoud Abbas nei giorni precedenti la visita.

Ancora, si riprende il discorso sulla necessità di facilitare la circolazione dentro e ai confini della Cisgiordania; di concedere ai palestinesi un maggior numero di permessi di lavoro in Israele; la possibilità di favorire la nascita e lo sviluppo di attività economiche palestinesi all’interno delle Aree C. Si parla anche del passaggio di una parte delle Aree C sotto il controllo dell’Anp. Per la parte palestinese, si ipotizza una rinuncia a chiedere l’inclusione in altri organismi dell’Onu e a ricorrere alla Corte internazionale dell’Aia, e soprattutto la continuazione della cooperazione tra i rispettivi servizi di sicurezza.

7. Trattative. Il problema del giorno dopo
Ma la questione sostanziale non è quella di arrivare a una ripresa delle trattative, ma la loro continuazione e il loro esito. Già nel 2010 Obama era riuscito a riportare Mahmoud Abbas e Netanyahu allo stesso tavolo, ma solo per registrare un nuovo nulla di fatto, un fallimento che peggiorò solo le cose. Ci si deve quindi porre il problema di cosa fare, nel caso le trattative vadano per le lunghe e le parti non riescano a trovare un terreno comune d’accordo.

Da questo punto di vista, le ipotesi possibili sono tre:

1) Il management del conflitto, se esso si ritiene irrisolvibile in questa fase, onde evitare l’esplosione di nuove e maggiori crisi;

2) La pressione per il raggiungimento di un nuovo accordo interimario, basato sulla creazione di uno Stato palestinese entro confini temporanei, riconosciuto internazionalmente, e creato aggiungendo alle attuali zone controllate dalla Anp larga parte delle Aree C attualmente sotto totale controllo israeliano;

3) La indicazione, da parte della Comunità Internazionale, di guidelines dettagliate per un possibile accordo, che possano essere recepite da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e pongano le basi per un più deciso intervento internazionale.

Ovviamente, alla Comunità internazionale spetta un ruolo di accompagnamento della trattativa, che può essere sia positivo, di facilitatori del negoziato, sia anche di pressione, con particolare riferimento alla discussione in atto nella Ue rispetto alla documentazione sulle norme di origine rispetto ai prodotti israeliani provenienti dagli insediamenti, con la connessa applicazione delle relative facilitazioni commerciali.

Questo paper è stato pubblicato sul blog di Janiki Cingoli sull’Huffington Post.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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