L’Editoriale

Israele, la svolta dell’unità nazionale

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 11 maggio 2012

Il nuovo governo di unità nazionale in Israele porta la maggioranza a disporre di 94 seggi su un totale di 120. Mentre la preannunciata dissoluzione anticipata del parlamento svapora, ora il governo dovrebbe durare senza problemi fino alla naturale scadenza dell’ottobre 2013. Questa svolta imprevista pone una serie di interrogativi e apre una serie di scenari del tutto nuovi.
Innanzitutto, sulle ragioni di questa scelta: il premier israeliano può essere stato indotto dalla accresciuta turbolenza all’interno della sua compagine, una turbolenza che pareva destinata a crescere nei mesi a venire. La pressione esterna al Likud, soprattutto ad opera di Avigdor Lieberman, leader di Yisrael Beiteinu, e interna al suo stesso partito, da parte degli esponenti legati all’esponente di estrema destra Feiglin, gli hanno reso in tutti questi anni la vita difficile, ed egli può avere scelto di sottrarsi al permanente ricatto. Per di più, i prossimi mesi si preannunciavano difficili, per la reiterata richiesta da parte della Corte suprema di smantellare gli avamposti illegali di Migron e Ulpana (costruiti su terre di proprietà palestinese), esponendo il premier alle contestazioni dei coloni senza un adeguato sostegno del suo stesso gabinetto.

Oggi, se la pressione della sua destra si fa troppo forte, potrà appoggiarsi sulla sua sinistra; e se la pressione della sua sinistra per una ripresa a breve termine dei negoziati con i palestinesi si farà troppo insistente, potrà appoggiarsi sulla destra. Una invidiabile posizione di centro, o, come direbbe Andreotti, una accurata politica dei due forni.

Per parte sua Mofaz, il nuovo leader di Kadima, si trovava di fronte alla previsione, ribadita da tutti i sondaggi, di un dimezzamento dei suoi seggi rispetto alle elezioni annunciare; ma soprattutto era la prospettiva a essere incerta, se fosse restato confinato all’opposizione, esposto alla doppia tenaglia del Likud e del nuovo Partito laburista a guida Shelly Yachimovich.
Infine, ha giocato la comune volontà dei partiti maggiori di arginare in qualche modo la crescente influenza dei partiti religiosi, varando una nuova legge in sostituzione della legge Tal, che esenta gli studenti delle Yeshivà dal prestare servizio militare, e che è stata dichiarata illegittima dalla Corte suprema.

Ma vi sono altre ragioni, più profonde. La prima è che i due leader hanno una stessa formazione di destra moderata. Mofaz aveva lasciato il Likud all’ultimo, dopo molte incertezze. Egli si è formato nelle stesse formazioni militari di élite, sotto la guida di Barak, fino ad arrivare al grado più alto di capo di stato maggiore. È possibile ipotizzare quindi anche una ricomposizione della destra, intorno a un asse moderato, ora che la traiettoria di Kadima pare arrivata al suo punto morto.

Secondo molti, dietro la decisione ci sarebbe poi la volontà di raccogliere le forze e riunificare il paese in vista di un possibile attacco all’Iran. Ciò non può certo essere escluso, ma pare improbabile che la scelta sia quella di un confronto frontale con gli Stati Uniti, che hanno chiaramente espresso la loro contrarietà a ogni scelta unilaterale israeliana e paiono ancora privilegiare l’opzione diplomatica, in vista del prossimo round negoziale di Bagdad. Piuttosto, pare che Netanyahu intenda giocare tutto il peso e l’ampiezza della sua nuova compagine per influenzare il negoziato indurendone le condizioni, come ha cominciato a fare in questi giorni nell’incontro con la Ashton, il ministro degli esteri della Unione europea, incontro a cui ha inusualmente invitato a partecipare anche Barak e Mofaz.
Ma vi è ancora un altro aspetto, finora poco considerato. Fino a poco tempo fa, Netanyahu aveva puntato su una vittoria repubblicana nelle prossime presidenziali USA, ed aveva optato per una politica di contenimento verso Obama, influenzando i membri del Congresso grazie al peso delle diverse lobby filoisraeliane. Ma oramai quasi tutti prevedono che Obama sarà rieletto, non dovrà più preoccuparsi di una nuova rielezione, sarà molto più libero dai condizionamenti e non avrà dimenticato le manovre e le sfide del premier israeliano durante tutto il corso del suo primo mandato. Meglio quindi non farsi trovare impreparati. Netanyahu sarà ora in grado di presentarsi al nuovo presidente come l’unico interlocutore possibile, fino a tutto il 2013, in grado di riprendere il discorso sui due Stati pronunciato a Bar Ilan nel giugno 2009, su nuove e aggiornate basi, o anche di prendere la strada opposta, se le circostanze lo consentiranno.

Sullo sfondo, plana il cosiddetto piano Mofaz, avanzato nell’autunno 2009, in cui quello che oggi è il vicepremier israeliano proponeva di costruire uno stato palestinese disarmato e indipendente sul 60 per cento dei territori palestinesi (Cisgiordania e Gaza), e di avviare immediatamente negoziati sui punti più controversi, in modo da arrivare rapidamente alla conclusione del negoziato finale. Egli non escludeva neanche di negoziare anche con Hamas, a ben determinate condizioni. È questa la carta di riserva cui pensa Netanyahu? Non lo si può escludere.

Il presidente palestinese, Mahmoud Abbas, ha subito capito il cambiamento di scenario, ribadendo la sua disponibilità a negoziare con la nuova compagine israeliana. Egli ha scritto nelle settimane passate una sofferta lettera, chiedendo di riaprire i negoziati sulla base di precise garanzie. Sarà ora interessante vedere cosa gli risponderà il premier israeliano, ed anche quali toni userà. Se e quando il piano Mofaz dovesse essere messo sul tavolo, il leader palestinese sarebbe posto di fronte a scelte difficili.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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