L’Editoriale 

Israele al voto

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:  5 febbraio 2009

A pochi giorni dal voto, in Israele appare sempre più probabile una vittoria di Netanyahu, leader del Likud, ma in base all’ultimo sondaggio pubblicato dal Jerusalem Post essa appare ridimensionata dalla forte affermazione di Israel Beitenu, il partito di estrema destra guidato da Avigdor Lieberman, che si è contraddistinto per i violenti attacchi, anche di tono razzista, rivolti contro gli esponenti della minoranza arabo-israeliana.

Al Likud vengono attribuiti 27 seggi, mentre per Israel Beitenu se ne prevedono 17, in corsa per il terzo posto con il partito Laburista, che tuttavia appare in leggera ripresa rispetto al crollo cui sembrava destinato nei mesi scorsi. Kadima, il partito di centro fondato da Sharon con spezzoni del Likud e del Labour e guidato dal Ministro degli Esteri uscente Tzipi Livni, dovrebbe piazzarsi al secondo posto, con 23 seggi.

Quanto allo Shas, il partito religioso sefardita che aveva bloccato il tentativo della Livni di formare un nuovo governo, preferendo sottoscrivere un accordo con Netanyahu, esso sarebbe in lieve flessione, con 10 seggi, mentre sostanzialmente stabili resterebbero il Meretz, della sinistra socialista (6 seggi), ed i partiti arabi, con circa 8 seggi.

Sulla carta, Netanyahu disporrebbe nella futura Knesset di una forte maggioranza di destra, ma non è detto che egli voglia consegnarsi a Liberman, tenuto conto del fatto che nella stessa lista del Likud vi è una notevole componente di falchi estremisti, facenti capo a Moshe Feiglin. Netanyahu negli anni ’80 è stato il numero due nell’Ambasciata israeliana a Washington, e da quella esperienza ha tratto la radicata convinzione che per Israele è vitale evitare uno scontro frontale con gli Usa. E’ indubbio che un governo tutto di destra potrebbe difficilmente evitare di entrare in rotta di collisione con la nuova amministrazione di Obama, che della apertura al mondo arabo e islamico ha fatto una delle bandiere fin dai giorni del suo insediamento.

Molti parlano perciò di un possibile governo Likud-Labour, che tenderebbe a emarginare Kadima, che i due partiti storici del paese vedono come una formazione artificiale ed effimera, destinata a sfasciarsi e a riconfluire nelle rispettive case madri. Ma la passata esperienza dei Governi di Unità nazionale in Israele, come quelli Shamir-Peres degli anni ’80, dimostra come questi conducano ad una sostanziale paralisi nello sviluppo del processo di pace.
D’altronde, Netanyahu dichiara di voler costruire una pace economica, sganciandosi dal confronto ravvicinato sul Final Status avviato un anno fa dopo la Conferenza di Annapolis. Far affluire una massa ingente di dollari sulla Cisgiordania, per tacitare e sostenere il traballante potere di Abu Mazen, aiutandolo a reggere la sfida di Hamas, e lasciare Gaza al suo destino. Ma è assai dubbio che ciò possa bastare a bloccare la rivendicazione nazionale palestinese ad uno Stato indipendente.

Mentre Israele si avvicina all’appuntamento del 10 febbraio, in Egitto vanno avanti i negoziati indiretti dei suoi rappresentanti con quelli di Hamas. Sul consolidamento della tregua e sulla cessazione dei lanci di razzi contro le città israeliane di confine; sulla riapertura dei valichi di Gaza; sul controllo del contrabbando di armi verso la striscia; sul rilascio del soldato Shalit in cambio di un alto numero di prigionieri palestinesi, anche macchiatisi di atti di terrorismo. Non si può nascondere una sensazione lunare, nel fare questo elenco: pare di essere tornati al giorno prima dell’offensiva. Tutti i morti, i feriti, le rovine sembrano senza effetto, anche in termini elettorali.

Parallelamente, al Cairo, vanno avanti i negoziati per superare la frattura tra Fatah ed Hamas e giungere alla formazione di un nuovo Governo di Unità nazionale, secondo quanto auspicato dalla recente risoluzione 1860 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Suleiman, il potente capo dell’intelligence egiziana, ha annunciato la convocazione delle diverse fazioni palestinesi per il 22 febbario, ma non è ancora sicuro che Hamas accetti l’invito, mentre Abu Mazen alterna le aperture agli attacchi contro le responsabilità della formazione islamica, e contro l’Iran che ne sarebbe stato il mandante.

E’ di questi giorni la pubblicazione di un importante appello di personalità palestinesi, di area sia laica che islamica, che chiama ad una nuova unità interpalestinese. Tra i firmatari, dirigenti storici come Hanan Asrawi e Fares Qaddoura.

E’ sempre più diffusa la consapevolezza, nella stessa Comunità internazionale, che non si può prescindere dal ruolo di Hamas se si vuole dare soluzione al nodo israelo-palestinese, e che si deve avere un approccio inclusivo e non esclusivo rispetto ai protagonisti del conflitto.

Uguale discorso vale per la Siria: è di questi giorni la notizia della probabile nomina di un nuovo ambasciatore Usa a Damasco, dopo tanti anni di congelamento dei rapporti diplomatici, mentre si moltiplicano i segnali di apertura non incondizionata verso l’Iran.

Mitchell, l’anziano inviato speciale per il Medio Oriente scelto da Obama, ha già cominciato il suo pellegrinaggio fra le capitali dell’area. Era stato lui, nell’ottobre 2000, all’esplodere della II intifada, a chiedere la fine degli attacchi palestinesi ed il parallelo blocco degli insediamenti israeliani, con il suo rapporto che fu all’origine della Road Map. Le costruzioni degli insediamenti israeliani sono cresciute nel 2008 del 45%. E Netanyahu annuncia che non ne costruirà di nuovi, ma non intende congelare quelli già esistenti.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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