L’Editoriale 

Conto alla rovescia per Netanyahu

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:17 aprile 2009

L’iniziale tentativo di Netanyahu di lasciare le cose nel vago, per non irritare il nuovo presidente USA, impegnandosi a formulare un piano complessivo per la pace e la cooperazione in Medio Oriente, continuare i negoziati e onorare gli accordi internazionali già firmati, senza fare menzione della possibile creazione di uno Stato palestinese, ed i suoi ripetuti accenni ad una possibile via alternativa di costruzione di una “pace economica” con i palestinesi, non hanno retto a lungo. Si soni infranti dopo le dichiarazioni del suo nuovo Ministro degli Esteri, Lieberman, che ha dichiarato che Israele non si sente impegnato dagli accordi di Annapolis, che non sono mai stati ratificati né dalla Knesset né dal governo, ma solo dalla Road Map; che non c’è alcuna risoluzione del Governo rispetto alla Siria e che “abbiamo detto non accetteremo di ritirarci dal Golan, la pace ci sarà solo ottenendo in cambio la pace”. Infine, in risposta agli ultimi interventi di Obama, egli è arrivato a sostenere che gli enti esterni devono smettere di fare pressioni su Israele, che “non si è mai impicciato negli affari degli altri, e io mi aspetto lo stesso, che nessuno stia qui con un cronometro in mano”. Naturalmente, nessun accenno al programma di 30 miliardi di finanziamenti USA in dieci anni, previsti per l’esercito israeliano.

Con ogni probabilità, Lieberman dice ciò che Netanyahu pensa, ma il Premier israeliano ha passato troppo tempo a Washington, per non sapere bene che l’unica cosa che Israele non può permettersi è uno scontro prolungato con gli USA, come quello di Shamir con Bush padre, agli inizi degli anni ’90, quando Israele dovette far fronte al blocco delle garanzie su 10 miliardi di dollari, necessari per l’assorbimento degli ebrei russi, uno scontro che finì con la vittoria di Rabin alle successive elezioni.

Egli si è quindi affrettato a dichiarare, dopo il discorso di Obama al Parlamento di Istanbul, di “aver apprezzato il suo impegno a garantire la sicurezza di Israele e a perseguire la pace”, e che il Governo di Israele è impegnato su entrambi questi obbiettivi, e formulerà le sue politiche nel prossimo futuro in modo da lavorare accanto agli Stati Uniti”.

Le prossime settimane saranno dunque dedicate alla definizione delle proposte del suo governo rispetto al processo di pace e alla iniziativa israeliana a livello regionale, ma i suoi spazi di manovra si sono certamente ristretti.

Obama aveva infatti ribadito che gli Stati Uniti ritengono strategicamente prioritaria la scelta di due Stati, l’uno israeliano e l’altro palestinese, che vivano l’uno al fianco dell’altro in pace e sicurezza.
“Questo obbiettivo – ha detto il Presidente USA – è stato concordato tra le parti nella Road Map e nella Conferenza di Annapolis (un riferimento certo non casuale), e questo è un obiettivo che io intendo perseguire attivamente come Presidente”.

Un elemento di novità, nel suo intervento, è che pur dichiarando di appoggiare il tentativo di mediazione turco tra Siria e Israele, non si è impegnato direttamente su questo, condizionando l’impegno USA allo sviluppo dei contatti della sua Amministrazione con Damasco, e soprattutto ribadendo che per Washington la prima priorità è il negoziato con i palestinesi.
Ai fini dell’obbiettivo strategico che Obama si prefigge, la costruzione di un nuovo rapporto con il mondo mussulmano che consenta l’isolamento e la sconfitta di Al Qaeda, appare essenziale la soluzione del problema palestinese e l’allentamento dell’asse privilegiato con lo Stato ebraico, pur senza naturalmente rinnegare la solidarietà e l’alleanza e la solidarietà con esso.
Per questo, crescono le voci, riportate dal quotidiano israeliano Ha’aretz, per cui lo staff di Obama si starebbe preparando allo show down, attraverso una serie di briefing preparatori con i parlamentari democratici, onde prepararli a uno sviluppo della iniziativa USA più deciso verso l’attuale Governo israeliano.
D’altronde, vi sono stati nelle scorse settimane due annunci: una dichiarazione dell’inviato speciale in Medio Oriente, George Mitchell, secondo cui gli USA si apprestano a incorporare nella loro politica il Piano Arabo del 2002, che postula il riconoscimento di Israele da parte di tutti gli Stati arabi in cambio della restituzione dei territori occupati nel ’67 (con possibili limitati scambi di territori), della creazione di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est e di una soluzione “giusta e negoziata” del problema dei rifugiati.

Inoltre, vi è notizia di un piano proposto da 10 esperti appartenenti all’entourage di Obama, tra cui Paul Volcker, Brent Scowcroft, Zbigniew Brzezinski, Lee Hamilton, James Wolfensohn, che propone di allentare le tre condizioni poste dal Quartetto a Hamas, insistendo su una tregua di lungo periodo con Israele, sulla formazione di un Governo di unità interpalestinese, e affidando ad Abu Mazen i negoziati sul Final Status, salvo ratifica degli eventuali accordi raggiunti attraverso un referendum. In sostanza, un recupero del vecchio accordo interpalestinese della Mecca, patrocinato dall’Arabia Saudita nel 2007.
Nel merito, il piano, che pare ripartire dagli accordi delineati a Taba nel 2001 e precisati nel “Modello di Accordo di Ginevra del 2003”,  si muove lungo le seguenti linee: ritiro israeliano ai confini del ’67, eccetto gli insediamenti maggiori lungo la linea verde e intorno a Gerusalemme, con corrispondenti scambi territoriali; Gerusalemme capitale dei due Stati, divisa su basi demografiche; adozione di un regime speciale per i Luoghi santi; riabilitazione dei rifugiati palestinesi con una qualche forma di corresponsabilizzazione per Israele; stazionamento di una forza internazionale di pace per una fase transitoria.

Infine, procede a pieno regime l’iniziativa diplomatica USA verso l’Iran, che certo tiene conto dell’allarme israeliano sui rischi che esso si doti dell’arma nucleare, ma pare scartare, almeno in questa prima fase, la richiesta di Gerusalemme di un negoziato a tempo con Teheran, e ancora di più quella di un semaforo verde a un nuovo blitz preventivo contro i siti nucleari iraniani, dopo quelli effettuati negli anni passati contro l’Iraq e la Siria.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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