L’Editoriale 

Obama ha trovato un Medio Oriente diverso

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:23 luglio 2008

Il Medio Oriente che Barak Obama si troverà di fronte, durante la sua ambiziosa visita di aspirante Presidente USA, è un Medio Oriente profondamente diverso da quello concepito da Bush. Per un capriccio della storia, i protagonisti paiono oggi tutti quei cattivi che lo stesso Bush aveva cercato di emarginare e mettere all’angolo, nella sua battaglia contro l’Asse del male. La stessa Gerusalemme, di cui anche Obama (per propiziarsi l’elettorato ebraico) aveva parlato anche in futuro come capitale indivisa di Israele, appare tutt’altro che sotto controllo: è di ieri il nuovo attentato al bulldozer, effettuato ancora una volta da un abitante arabo della parte orientale della città, dotato di carta di identità israeliana: un attentato che rivela come la penetrazione della propaganda terrorista e forse qaedista ha fatto breccia tra la popolazione di Gerusalemme Est, su cui non si esercita né l’autorità dell’ANP, i cui organi di rappresentanza anche indiretta (come Horient House) sono stati cancellati in tutti questi anni di repressione della nuova intifada, né di fatto la stessa autorità israeliana: vi sono quartieri arabi, al di qua e al di là del muro, che costituiscono zone franche aperte ad ogni infiltrazione, come ha rilevato in una audizione parlamentare lo stesso capo dello Shin Bet, Yuval Diskin.

Ma è tutto il panorama regionale ad essere in movimento: dopo che tutti i servizi di sicurezza USA hanno certificato al Presidente americano, attraverso il report pubblicato mesi fa, che l’Iran aveva oramai abbandonato ogni programma militare nucleare, report in sé dubbio, ma che stava a significare un fermo stop dell’establishment militare ad ogni progetto di attacco armato contro Teheran, la politica di Washington sta effettuando un faticoso ed incerto passaggio da una politica di confrontation a breve a una politica di containement a medio periodo: in qualche modo analogo a quello effettuato verso l’Unione Sovietica, quando si decise di abbandonare la politica di Roll Back attivo, affidandosi per una intera fase al cosiddetto equilibrio del terrore. È di questi giorni la partecipazione di William Burns, numero tre del Dipartimento di Stato, al fianco dei negoziatori europei che trattano con l’iraniano Saeeb Salili il pacchetto di incentivi per l’abbandono del programma di arricchimento dell’uranio, e l’annuncio della probabile apertura di una Sezione di interessi statunitense in Iran, per la prima volta dopo la crisi degli ostaggi nell’Ambasciata statunitense del ’79. La scelta del contenimento, naturalmente, non esclude prove di forza e sfide anche dure, ma rende altresì possibili accordi limitati e momenti di cooperazione, come si è visto d’altro canto in Iraq: gli Stati Uniti, di fatto, non possono prescindere dal rapporto con l’Iran, se vogliono ritirare le loro truppe da Baghdad in un futuro non troppo remoto. Ma sull’elenco dei cattivi, l’altro protagonista tornato alla ribalta è indubbiamente la Siria: fino a poco tempo fa proscritta e sotto minaccia di un processo internazionale, ha visto il suo Presidente accolto con tutti gli onori alla recente Assemblea Euromediterranea di Parigi: e d’altronde, il giovane Assad aveva già visto volgere in suo favore il conflitto interno libanese per l’elezione del nuovo Presidente della repubblica, Suleiman, conclusosi con il riconoscimento del potere di veto a Hezbollah nella formazione del nuovo governo: un potere che mette al riparo Damasco da indagini troppo approfondite per l’assassinio del precedente presidente libanese Hariri. Il gruppo sciita libanese, d’altro canto, ha concluso con successo lo scambio di prigionieri, restituendo i corpi dei due soldati rapiti due anni fa in cambio dei terroristi ancora imprigionati in Israele: uno scambio che riapre tutti gli interrogativi sulla scelta israeliana della guerra di due anni fa. Sull’altro versante, la Siria ha avviato promettenti negoziati indiretti con Israele, attraverso la mediazione turca, e tiene in mano le leve di controllo su Hamas e su Hezbollah, in condominio con l’Iran.

Quanto ad Hamas, ha concluso l’accordo per la tregua di sei mesi con Israele, sta negoziando per la riapertura dei valichi di Gaza, già parzialmente attuata, e sta negoziando, attraverso la mediazione egiziana, per il rilascio del soldato Shalit, in cambio di 1000-1500 prigionieri palestinesi, tra cui dovrebbe essere incluso, secondo le voci, lo stesso leader palestinese in carcere Marwan Barghouti. Ciò naturalmente stabilizza il controllo di Hamas su Gaza, e indebolisce il Presidente legittimo dell’ANP, Abu Mazen. Non è un caso che i negoziati tra Fatah e Hamas per la ricostituzione della unità interna palestinese, propiziati da diversi stati arabi, ristagnino: la formazione islamica, che ha dimostrato di saper reggere il blocco economico imposto da Israele, non pare avere troppa fretta, sa che il tempo lavora in suo favore. Così, quelli che oggi sono in difficoltà, sono i buoni: Di Abu Mazen si è già detto, quanto a Olmert si attende solo di conoscere la data delle sue dimissioni per le inchieste giudiziarie da cui è sommerso.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

Leggi tutti gli EDITORIALI