L’Editoriale 

Medio Oriente. Eppur si muove

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:  26 agosto 2008

La notizia della prossima ripresa di normali relazioni diplomatiche tra Siria e Libano, con la annunciata reciproca apertura di ambasciate nei due paesi, data nel corso della recente visita in Siria del nuovo presidente libanese Michel Suleiman, costituisce certamente un punto di svolta nelle tormentate relazioni tra i due paesi. Ad essa si accompagna la successiva comunicazione sulla ricostituzione della commissione congiunta per la delimitazione dei confini tra i due paesi. Damasco fin dagli anni ’40 si era rifiutata di riconoscere il piccolo Paese dei cedri come Stato indipendente, considerandolo piuttosto come una propria provincia solo provvisoriamente indipendente. Ma bisogna tenere presente che la costituzione del nuovo Governo libanese di Unità nazionale, con la presenza di più di un terzo di ministri filo-siriani (11 su 30) (con una forte componente degli Hezbollah), dando così loro potere di veto su ogni decisione importante del governo stesso: una garanzia non da poco, anche in relazione alla inchiesta ancora in corso sull’assassinio del vecchio Presidente Hariri, la cui responsabilità in molti attribuiscono alla Siria.
Assad aveva già preannunciato la svolta a Sarkozy, nel corso della sua visita a Parigi del luglio scorso, in occasione della Conferenza Euromediterranea: una visita che aveva sancito la fine del suo isolamento, tenacemente perseguito in tutti questi anni dalla Amministrazione Bush, che lo vedeva come una componente essenziale dell’Asse del male.
D’altronde, lo sforzo siriano per ritornare presentabile e farsi accettare a pieno titolo nel grande circuito diplomatico internazionale, è stato evidenziato in maniera plastica dall’avvio di negoziati indiretti con lo stesso Israele, mediati dalla Turchia, ed avviati già da molti mesi. Sono già numerosi gli incontri effettuati dalle due delegazioni ad Istanbul, con risultati che sono stati considerati da entrambe le parti soddisfacenti anche se ancora non risolutivi.
Il problema è la debolezza del Premier israeliano, che ha già preannunciato per settembre le sue dimissioni per le numerose inchieste cui è sottoposto, non appena il suo Partito, Kadima, avrà eletto il suo successore.
Olmert sta cercando disperatamente di portare avanti i due negoziati avviati, quello con Damasco e quello con i palestinesi, per non lasciare legata la sua immagine solo alle inchieste giudiziarie. Ed anzi proprio nelle ultime settimane è stata anticipata dal quotidiano israeliano Haaretz una sua “piattaforma di accordo” proposta ad Abu Mazen, che presenta elementi di rilevante interesse, e tuttavia non sembra tal da costituire una base sufficiente per raggiungere un accordo di principio tra le parti.
Nabil Abu Rdainah, portavoce del Presidente palestinese, ha definito il piano una “perdita di tempo”, tacciandolo di “mancanza si serietà”, perché non dà risposta alla richiesta di uno Stato palestinese territorialmente contiguo, con capitale Gerusalemme.
Eppure, la proposta Olmert indica il punto di arrivo di una sofferta maturazione: essa propone di lasciare al costituendo Stato palestinese il 93% della Cisgiordania (oltre a tutta Gaza, già abbandonata unilateralmente da Sharon), più un 5,5% di territorio desertico israeliano a ridosso di Gaza. In cambio, Israele si terrebbe il 7% della Cisgiordania, ove sono ubicati i maggiori insediamenti intorno a Gerusalemme e lungo la Linea Verde. Grosso modo, l’area delimitata attualmente dal cosiddetto “muro”.
La differenza dell’1,5% verrebbe compensata con la creazione del famoso salvapassaggio tra Cisgiordania e Gaza, che pur restando sotto sovranità israeliana sarebbe al servizio dei palestinesi delle due aree, consentendone il libero transito.
Gli stessi palestinesi avevano d’altronde già accettato l’idea di scambi territoriali alla pari, pur non di questa entità, attestandosi intorno al 2%, di cui si era discusso a Camp David 2 e a Taba.
Per quanto riguarda gli insediamenti, quelli entro quest’area del 7% resterebbero sotto controllo di Israele, che si riserverebbe fin da subito il diritto di costruirvi case e infrastrutture.
Per i restanti, ove risiedono circa 70.000 coloni, si prevedono due fasi: in una prima fase, si darebbe la possibilità ai coloni di evacuare volontariamente dietro compensazioni: costoro potrebbero sistemarsi dentro Israele o anche, probabilmente, negli insediamenti esistenti di cui si prevede l’annessione, dove è stata programmata la costruzione di migliaia di nuove unità, abitative, malgrado le proteste palestinesi e degli stessi USA.
Israele rimuoverebbe tutti i coloni restanti ad est del nuovo confine solo in un secondo stadio, quando i palestinesi abbiano completato le loro riforme interne e siano in grado di adempiere gli impegni previsti dall’intero accordo (e cioè quando saranno in grado di riprendere il controllo su Gaza).
Il problema sta appunto qui: mentre Israele entrerebbe subito nella disponibilità di quel 7%, i palestinesi dovrebbero attendere questo fantomatico secondo stadio, quando sarà possibile costruire il nuovo Stato palestinese.
Quanto ai rifugiati, questi dovrebbero essere assorbiti in tale Stato, e solo una parte piccola (si parla di 20.000 unità, ma vi sono state subito precipitose smentite), sarebbe accolta in Israele per riunificazioni familiari.
Di Gerusalemme, per il momento, non si parla, si sarebbe convenuto di rinviarne all’ultimo la trattazione.
Probabilmente, troppo tardi e troppo poco: è dubbio che i suoi potenziali successori consentano a Olmert di andare avanti, e che il prudente Abu Mazen, che ha i suoi problemi con Hamas, voglia davvero imbarcarsi in un confronto difficile e dagli esiti così incerti.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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