L’Editoriale
Tornare alla Mecca
di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente
Data pubblicazione: 18 luglio 2007
Sono sempre più numerosi, in Italia coloro che sostengono sia necessario trattare con Hamas, ma come spesso capita la confusione sotto il cielo è ancora grande.
Chi scrive ha sostenuto, fin dai primi mesi successivi al successo della organizzazione islamica nelle elezioni legislative palestinesi del gennaio 2006, che era necessario coinvolgere Hamas nel processo negoziale, e che non si poteva comunque ignorarne la vittoria, ottenuta con mezzi del tutto legittimi e trasparenti.
Credo che sia stato quindi un errore il boicottaggio contro i successivi governi a partecipazione Hamas, entrambi guidati da Haniyeh, l’ultimo tuttavia un Governo di Unità nazionale formato dopo l’accordo interpalestinese della Mecca.
Questo non significa che Israele o la Comunità internazionale dovessero riconoscere quei governi o Hamas, in quanto formazione politica. Non si riconoscono i governi o i partiti, si riconoscono gli Stati, o almeno gli embrioni di stati come l’Autorità Nazionale Palestinese. Con i governi democraticamente eletti si opera, senza boicottarli, avendo contatti o incontrandone i membri, così come con i diversi esponenti politici.
D’altronde, la questione del riconoscimento di Hamas da parte israeliana, oggi del tutto teorica, non è all’ordine del giorno, perché è lo stesso Hamas che si rifiuta di riconoscere Israele.
Il quadro di riferimento possibile è ancora oggi un altro, e fa riferimento da un lato al rinnovato Piano arabo di pace, dall’altro all’Accordo interpalestinese della Mecca, del febbraio 2007.
Nel testo di quest’ultimo (e nel successivo Programma del Governo di Unità Nazionale palestinese), vi è un passaggio chiave: la delega a Mahmud Abbas (Abu Mazen), in quanto Presidente dell’OLP e non in quanto Presidente dell’ANP, a condurre il negoziato con Israele sul Final Status: l’esito della trattativa, se non approvato dal Consiglio Legislativo Palestinese (controllato da Hamas) sarebbe stato sottoposto a referendum.
Attraverso questa formulazione, Hamas si sfilava dalla partecipazione a contatti preliminari con Israele, delegando a ciò Abu Mazen, ma si impegnava a valutarne i risultati, e comunque a rispettare gli esiti dell’eventuale referendum.
Nel contempo, si manifestava l’intenzione di concentrare la lotta armata all’interno dei territori occupati, relegando in secondo piano la lotta dentro Israele e quindi le iniziative terroristiche rivolte contro i civili. Contestualmente, si ribadiva la disponibilità ad una tregua bilaterale con Israele, di lunga durata, che fosse estesa anche alla Cisgiordania e non solo a Gaza.
Un altro aspetto dell’accordo della Mecca era il comune impegno al “rispetto” degli accordi pregressi firmati dall’OLP, e quindi degli stessi accordi di Washington.
Alla Mecca, infine, si faceva riferimento alle risoluzioni dei precedenti summit arabi, e quindi anche al Piano di pace arabo votato a Beirut nel 2002, e recentemente rilanciato al Vertice di Riad.
Il riferimento al Piano arabo apre la strada alla questione del riconoscimento di Israele, che tuttavia il Piano colloca alla fine e non preliminarmente al negoziato di pace, come d’altronde è prassi normale tra paesi in conflitto.
Nel Piano arabo e nella Mecca vi è quindi una sufficiente risposta alle tre condizione del Quartetto, riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza e riconoscimento degli accordi pregressi.
Non aver valutato ciò da parte del Quartetto e aver continuato a riproporre meccanicamente le sue tre condizioni è stato uno degli errori essenziali che la Comunità internazionale abbia fatto, ed a cui l’Europa e l’Italia si sono accodate, fino alla recente lettera dei 10 Ministri degli Esteri. Questa scelta ha indubbiamente contribuito a spingere Hamas al colpo di forza, in ogni caso ingiustificabile, facendo prevalere al suo interno le correnti più dure e intransigenti.
La questione oggi non è spingere per improbabili riconoscimenti di Hamas, ma chiarire che un ritorno ad un Governo di Unità Nazionale, basato sullo spirito di quegli accordi, è necessario e auspicabile, e che esso troverebbe una nuova disponibilità di contatto e lavoro comune da parte della Comunità internazionale, che non rinnoverebbe comunque il boicottaggio. Questo sarebbe un contributo importante a superare la crisi interpalestinese.
Questo non significa naturalmente rinunciare a rafforzare Abu Mazen attraverso misure di fiducia quali quelle di cui si parla in questi giorni, o rinunciare a lavorare con lui e il suo nuovo Governo sulle questioni legate al Final Status. Ma l’ottica deve essere quella del coinvolgimento dell’intero schieramento palestinese, incluse le componenti islamiche. E la prospettiva del referendum concordato alla Mecca potrebbe tornare di attualità per superare la crisi interpalestinese.
Ciò deve essere tenuto presente anche nel caso di convocazione, come proposto da Bush, di una Conferenza internazionale di Pace, che non dovrebbe essere concepita come un’arma rivolta contro Hamas. Non si può fare la pace solo con Al Fatah, anche per la stessa sicurezza di Israele, e non si può costruire uno Stato palestinese senza Gaza, abbandonando la striscia all’estremismo e ad Al Qaeda.
NOTE SULL'AUTORE
Janiki Cingoli
Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.
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