L’Editoriale 

Medio Oriente. L’ora della concretezza

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 31 luglio 2007

Abbiamo assistito con sgomento al colpo di forza attuato a Gaza, e all’assassinio di tanti militanti di Al Fatah che cercavano, senza successo, di opporvisi.
Si è trattato, in ogni caso, di un golpe anomalo, effettuato da una forza che non aveva perso, come di consueto in questi casi, le elezioni, ma le aveva vinte. La formazione islamica si è ripresa, a Gaza, ciò che già considerava suo, un potere che aveva vinto con le elezioni legislative, ma che né Al Fatah, né la Comunità internazionale gli avevano mai compiutamente riconosciuto, continuando a considerarlo un occupante abusivo, temporaneo e non pienamente riconosciuto.
Fin dai primi mesi successivi alla vittoria di Hamas, chi scrive ha sostenuto che era un errore il boicottaggio contro i governi da esso diretti, che era necessario coinvolgere la formazione islamica nel processo negoziale, e che non si poteva comunque ignorarne la vittoria, ottenuta con mezzi del tutto legali e trasparenti.
Ma quella vittoria è stata considerata legale ma non legittima, ed ha prodotto un prolungato isolamento internazionale e politico, ed un conseguente embargo economico.
Intanto, sono continuate le iniziative volte ad assicurare soldi, armi e riconoscimento politico solo ad Al Fatah, cercando di avvantaggiarlo nella mai sopita conflittualità con la formazione islamica, che veniva mantenuta ai margini in una condizione di inferiorità alla lunga intollerabile.
L’ accordo interpalestinese della Mecca dello scorso febbraio aveva portato ad una piattaforma condivisa e sostanzialmente moderata, e alla formazione di un Governo di Unità nazionale.
Il tentativo di mediazione, raggiunto sotto gli auspici del Re saudita Abdullah, metteva fine alla rappresentanza esclusiva del movimento palestinese da parte di Al Fatah, individuando in Hamas l’altro pilastro su cui doveva fondarsi l’Autorità Nazionale Palestinese. Ma esso di fatto non ha mai funzionato: troppe le riserve e le resistenze da ambo le parti, e soprattutto insufficienti il riconoscimento e l’appoggio internazionali al nuovo Governo, anche da parte dell’Europa.
Il Quartetto (USA, UE, Russia e ONU), invece di reagire positivamente alla nuova situazione, e cercare di consolidare il fragile accordo, aveva continuato a ripetere meccanicamente le sue tre condizioni (riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza, riconoscimento dei trattati pregressi), ignorando i sostanziali passi in avanti che pure in quello stesso accordo erano stati compiuti.
La conseguenza è stata la crisi del Governo di Unità Palestinese. Esso era stato accettato, dalla leadership politica del movimento islamico, e specificamente dal suo leader Meshal, malgrado forti resistenze interne per le sostanziose concessioni politiche che era stato costretto a fare, nella speranza che ciò consentisse di porre fine all’isolamento e al boicottaggio internazionali. Tutto ciò non è avvenuto, se non molto parzialmente.
La UE ha deciso, come gli USA, di avere a che fare solo con i ministri non appartenenti a Hamas, che ha continuato a essere trattato come un appestato.
Il sostanziale stallo del nuovo governo, d’altra parte, ridava fiato anche alle componenti più oltranziste di Fatah, che hanno sempre puntato alla prova di forza con Hamas, premendo per nuove elezioni.
Tutto ciò ha indubbiamente contribuito a spingere la formazione islamica al colpo di forza a Gaza, in ogni caso ingiustificabile, facendo prevalere al suo interno le correnti più dure e intransigenti.
Hamas controlla oggi la Striscia, e con esso sarà necessario in qualche modo avere a che fare, essendo impensabile sigillare quel milione e mezzo di persone come se fossero scarafaggi.
Naturalmente, si pone il problema se non fosse meglio gestire in modo più positivo il rapporto con il governo Hanyeh, misurandolo sul terreno dei fatti concreti e dei risultati da perseguire, senza giungere a questi estremi.
Non aver valutato ciò aver continuato sulla via delle pregiudiziali ideologiche è stato un errore essenziale del Quartetto, a cui l’Europa e l’Italia si sono accodate, almeno fino alla recente lettera dei 10 Ministri degli Esteri, tra cui quello italiano.
Tale lettera appare importante per i suoi contenuti (riconoscimento del fallimento della Road Map, valorizzazione della iniziativa araba, invito a facilitare la ricomposizione interpalestinese, appoggio alla proposta di una Conferenza internazionale). Ma essa è ancor più significativa perché rimette in discussione il baricentro della politica estera della UE, impersonificata da Solana, che in tutta questa fase si era eccessivamente appiattita sulle posizioni degli USA; ed in prospettiva una evoluzione della posizione UE può stimolare una posizione più aperta e realistica del Quartetto, tenendo conto anche dell’evoluzione della posizione russa e di quella del nuovo Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki Moon.

La questione di Hamas va tuttavia trattata in tutta la sua complessità. Esso non è certo una formazione degna di simpatia, ha connotazioni nettamente antisemite e ha praticato il terrorismo. Né si vuole attenuare la pericolosità e l’inaccettabilità della sua concezione sociale e statuale, che può essere definita di islamismo totalitario. L’imprinting è quello dei Fratelli Mussulmani, che pure siedono nel Parlamento egiziano, senza che ciò desti polemiche da parte di alcuno.
Tutta una serie di misure adottate a Gaza dopo il Golpe, come il decalogo di suggerimenti rivolti alle donne (obbligo del velo, divieto di recarsi sulla spiaggia etc.) sono segnali inquietanti della direzione di marcia integralista dei nuovi padroni.
Va detto tuttavia che la demonizzazione di questo movimento islamico ad opera di taluni esponenti israeliani, come la sua stessa comparazione dei suoi leader a Hitler, non convince, e appare tale da svilire lo stessa enorme portata storica dell’Olocausto.
E’ innegabile, in definitiva, che si tratti di un fenomeno articolato, radicato nella realtà palestinese e con forti connotazioni sociali, con cui appare inevitabile, alla lunga, misurarsi e fare i conti, e la cui nascita è d’altronde stata favorita, alle origini, dalla stessa leadership israeliana in funzione anti-OLP.
Questo non significa che Israele o la Comunità internazionale avrebbero dovuto o debbano riconoscere i Governi Haniyeh, o Hamas in quanto formazione politica. Non si riconoscono i governi o i partiti, si riconoscono gli Stati, o almeno gli embrioni di Stati come l’Autorità Nazionale Palestinese. Con i governi democraticamente eletti si opera, senza boicottarli, avendo contatti o incontrandone i membri, così come con i diversi esponenti politici.
D’altronde, la questione del riconoscimento di Hamas da parte israeliana, oggi del tutto teorica, non è all’ordine del giorno, perché è lo stesso Hamas che si rifiuta di riconoscere e di trattare con Israele.
Il problema oggi non è spingere per improbabili riconoscimenti della formazione islamica, ma chiarire che un ritorno ad un Governo di Unità Nazionale è necessario e auspicabile, e che esso troverebbe una nuova disponibilità di contatto e lavoro comune da parte della Comunità internazionale, che non rinnoverebbe il boicottaggio riproponendo come un disco rotto le sue tre condizioni.
Questo sarebbe un contributo importante a superare la crisi, e in questo senso va indirizzata l’iniziativa delle forze che premono per una ricomposizione del conflitto interpalestinese.
Ciò rafforzerebbe altresì la componente più politica di Hamas, che fa capo al suo leader Meshal, rispetto a quelle più  militaristiche, tra cui si contano i promotori e gli esecutori del colpo di forza a Gaza.

Il quadro possibile e praticabile cui si deve fare riferimento è da un lato il rinnovato Piano arabo di pace, dall’altro l’Accordo interpalestinese della Mecca, del febbraio 2007, insieme al cosiddetto “Documento dei prigionieri” che esso assumeva come base di riferimento.
In quest’ultimo documento si rivendicava tra l’altro la formazione di uno Stato palestinese entro i confini del ’67, il che costituisce un riconoscimento de facto della realtà israeliana.
Si dichiarava inoltre di voler concentrare la lotta armata all’interno dei territori occupati, e non sulle iniziative dentro Israele (di natura solitamente terroristica). Si ribadiva poi la disponibilità ad una tregua bilaterale con Israele, di lunga durata, purché questa fosse estesa anche alla Cisgiordania.
Tale aspetto fa riferimento a una delle tre condizioni del Quartetto, e cioè la “rinuncia alla violenza”.  Ma se è giusto e necessario esigere una rinuncia al terrorismo, rivolto contro i civili, che è in ogni caso da condannare e combattere ( e su cui è innegabile il persistere, anche in questi documenti, di una ambiguità ingiustificabile), diversa è la questione rispetto alla lotta armata contro l’occupante, che è un diritto riconosciuto internazionalmente, e per cui può essere più corretto proporre una tregua di lunga durata, per consentire lo svolgimento delle trattative.
Nell’accordo della Mecca vi è inoltre un passaggio chiave, che potrebbe tornare di attualità oggi, per sbloccare l’impasse determinatosi a Gaza: la delega a Abu Mazen, in quanto Presidente dell’OLP e non in quanto Presidente dell’ANP, a condurre il negoziato con Israele sul Final Status: l’esito della trattativa, se non approvato dal Consiglio Legislativo Palestinese (controllato da Hamas) sarebbe sottoposto a referendum. Attraverso questa formulazione, Hamas si sfilava dalla partecipazione a contatti preliminari con Israele, delegando a ciò Abu Mazen, ma si impegnava comunque a rispettare gli esiti del referendum stesso.
Un altro aspetto essenziale dell’accordo era l’impegno al “rispetto” degli accordi pregressi firmati dall’OLP, e quindi degli stessi accordi di Washington.
Si deve ricordare che tale formulazione, non casualmente, è la stessa utilizzata sia da Sharon che da Netanyahu al momento della presentazione dei loro governi alla Knesset: l’impegno al “rispetto” degli accordi di Washington, contro la cui approvazione d’altronde essi avevano votato.
Nel testo della Mecca, infine, si faceva riferimento alle risoluzioni dei precedenti Summit arabi, e quindi anche al Piano di pace arabo votato a Beirut nel 2002, recentemente rilanciato a Riad.
Il riferimento al Piano arabo apre la strada al riconoscimento di Israele, che tuttavia il Piano colloca alla fine e non preliminarmente al negoziato, come d’altronde è prassi normale tra paesi in conflitto.
Anche nei negoziati con Egitto, Giordania, Siria Israele non ha preteso il riconoscimento preliminare, e d’altronde è difficile che vi sia un riconoscimento di uno Stato se non si definiscono i suoi confini, chiarendo se ci si riferisce a quelli del ’67, a quelli di cui si è discusso a Camp David 2, o a quelli tracciati dal “muro di difesa”.
Nel Piano arabo e nella Mecca vi è quindi una sufficiente risposta alle tre condizione del Quartetto, riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza e riconoscimento degli accordi pregressi.
Il ritorno ad un Governo interpalestinese basato su tale piattaforma dovrebbe essere considerato auspicabile dalla Comunità internazionale e dal Quartetto, ed in particolare dal suo nuovo Inviato Speciale Tony Blair.
D’altronde, la stessa diplomazia USA non ha avuto sulla questione Hamas un approccio uniforme: la stessa Condoleezza Rice, nei mesi passati, aveva dichiarato che era meglio avere quelli di Hamas dentro il Governo che nelle strade, incappucciati, a organizzare il terrorismo. E il concetto è stato rilanciato nel luglio dall’ex Segretario di Stato Colin Powell, che ha sostenuto la necessità di trovare forme di coinvolgimento della formazione islamica nel processo negoziale, che per essere credibile non poteva riguardare solo Al Fatah.

Nella nuova situazione creatasi dopo il golpe, lascia perplessi la quasi euforia che si registra in molti commenti, come se ora i problemi possano considerarsi risolti: Hamas è fuori dal governo palestinese, e quindi è possibile far cadere l’embargo e rilanciare il negoziato.
Ma vi sono due semplici domande a cui occorre rispondere: è possibile fare un accordo con Abu Mazen che riguardi solo la Cisgiordania ed escluda Gaza, abbandonando la Striscia all’estremismo e ad Al Qaeda? E’ possibile fare un accordo solo con Al Fatah, escludendo Hamas?
La risposta appare negativa in entrambi i casi: nessun leader palestinese può rinunciare a Gaza, e Fatah da solo non è in grado di garantire il rispetto di qualsiasi accordo preso, in particolare per quanto riguarda la sicurezza: basta qualche commando difficilmente intercettabile, come Hamas ha ampiamente dimostrato in passato, per provocare guasti enormi e destabilizzare la situazione.
La stessa proposta di indire elezioni anticipate tra i palestinesi appare poco credibile: non si vede come tali elezioni potrebbero essere tenute, almeno a Gaza, dove le forze al potere non riconoscono il nuovo Governo. Governo che non potrà essere votato dal Consiglio legislativo, controllato dagli islamici, ed i cui membri d’altronde sono in larga parte nelle prigioni israeliane.
Si può quindi prevedere un Governo d’emergenza, per sua natura provvisorio, destinato ad una lunga durata, senza sostanziali obiezioni “democratiche” da parte della Comunità internazionale.
Va detto d’altronde che la stessa Cisgiordania stessa non è immune dall’influenza della formazione islamica, che seppure meno forte che a Gaza vi è presente ovunque.
Se l’attuale trend nella crisi di credibilità di Al Fatah dovesse continuare, e Abu Mazen non potesse vantare successi sostanziali e non solo di facciata presso la sua opinione pubblica, non è da escludere che nel giro di due anni quel che è successo nella Striscia non sia destinato ad essere replicato anche nella parte residua dei Territori palestinesi.

Non si può trascurare, infatti, la sempre più acuta crisi di Al Fatah, che appare una galassia in via di dissoluzione, un coacervo di personalità e gruppi in lotta per il potere. Lo stesso subitaneo crollo di Al Fatah a Gaza, di fronte all’assalto islamico, è testimonianza della sua estrema fragilità.
Tutti i tentativi di democratizzazione di questo movimento, ripetutamente rilanciati dalla cosiddetta “young generation” che fa riferimento a Marwan Barghouti, il leader dell’intifada nelle carceri israeliane, sono stati fatti cadere e sono falliti: il Congresso dell’organizzazione non viene convocato da circa venti anni, i suoi organismi sono presidiati da vecchi gerontocrati screditati e corrotti, che non vogliono cedere un grammo delle briciole di potere residuo, e guardano con attenzione al rivolo di nuovi aiuti promessi dopo l’estromissione di Hamas dal Governo.
Abu Mazen aveva vinto le elezioni presidenziali su una piattaforma di rinnovamento e democratizzazione, che poi è rimasta del tutto sulla carta: non basteranno certo un po’ di soldi e di armi per restituire credibilità a questa formazione, fattasi sempre più partito-stato di uno stato inesistente.
Quanto ai suoi incontri periodici con Olmert, se continueranno ad andare come ora, questi serviranno solo a fargli perdere qualche altro punto in percentuale nei sondaggi d’opinione sulla sua popolarità.

Quanto detto finora non vuol significare una rinuncia ad appoggiare il nuovo Governo palestinese presieduto da Al Fayed, uomo che gode del generale rispetto. Ma sulla base di un realismo estremo, e comunque l’ottica deve essere quella, almeno in prospettiva, del rinnovato coinvolgimento dell’intero schieramento palestinese, incluse le componenti islamiche.
L’alternativa, va detto, è spingere Hamas verso il ritorno alla pratica terroristica, sostanzialmente abbandonata nell’ultimo anno, e in prospettiva il rafforzamento dei gruppi legati a Al Qaeda (cui Hamas continua a dichiararsi ostile), come si è già cominciato a verificare nei campi profughi del Libano.
Non è un caso che la Lega Araba, e lo stesso Mubarak, moltiplichino gli appelli volti alla ripresa dei contatti tra le due maggiori formazioni palestinesi, in modo che si arrivi a un accordo “Mecca 2”, nell’ambito dell’auspicato rilancio del Piano arabo. E la prospettiva del referendum concordato alla Mecca potrebbe tornare di attualità per superare la crisi interpalestinese.
Questo quadro potrebbe essere un punto di riferimento interessante, e la tenuta di quel referendum potrebbe giustificare la presenza, stabilita di intesa con tutte la parti palestinesi e naturalmente israeliane, di una forza internazionale per ristabilire la fiducia.
La proposta di una simile forza internazionale è stata rilanciata da Solana, ed è stata ripresa dalla Lettera dei 10. Della partita, naturalmente, dovrebbe essere anche Israele, che tuttavia non può pensare, come chiede Olmert, che la forza di intervento possa limitarsi solo al confine con l’Egitto, senza comprendere il confine con Israele.
Un intervento di questo genere, di fatto, non potrebbe essere messo in campo senza avviare un negoziato che coinvolga non solo Abu Mazen ma anche Hamas, e questo ci riporta al punto di partenza: la formazione islamica otterrebbe sul terreno ciò che la diplomazia gli ha negato prima sul piano politico. Ma si tratta di un passaggio che a questo punto pare ineludibile.
Più in generale, anche se la proposta per il momento non appare di immediata attualità, sembra comunque opportuno parlare più di una forza per ristabilire la fiducia e costruire la pace, tra i palestinesi e tra essi e gli israeliani, piuttosto che di una mera forza di intervento e di sicurezza: la questione infatti non può essere affrontata solo in un’ottica militare.

Quanto detto finora  non implica naturalmente la rinuncia a appoggiare il Governo nominato da Abu Mazen attraverso misure di fiducia quali quelle del rilascio dei prigionieri, della restituzione delle tasse bloccate, della liquidazione  delle centinaia di blocchi stradali interni alla Cisgiordania, della rimozione dei cosiddetti avamposti illegali (cosiddetti perché non è che gli insediamenti possano essere considerati legali, almeno dalla Comunità internazionale), delle altre misure per facilitare il movimento dei palestinesi. O la rinuncia alle iniziative umanitarie a favore della popolazione di Gaza, che non deve pagare le scelte scellerate dei suoi leader.
Ma se davvero si vuole aiutare Il Presidente palestinese, non ci si può limitare a misure a breve termine come queste, si deve rilanciare l’iniziativa sul cosiddetto “orizzonte politico” così spesso citato da Condoleezza Rice.
Il problema, tuttavia, è che entrambe le leadership, israeliana e palestinese, appaiono oggi troppo deboli e troppo concentrate sull’emergenza quotidiana, per affrontare una sfida come questa.
Per questo ritorna oggi, rilanciata a inizio estate dal Presidente Bush, la proposta di una nuova Conferenza Internazionale, dopo quella di Madrid del ’91, che riesumi questa parte della oramai defunta Road Map e svolga una funzione di accompagnamento ai partner negoziali troppo esili e troppo recalcitranti. E’ essenziale, tuttavia, che tale Conferenza internazionale non venga concepita e avanzata, come nelle iniziali proposte del Presidente USA, come un’arma rivolta contro Hamas. Si rischierebbero contraccolpi che potrebbero metterne in forse la praticabilità.
Va detto tuttavia che la convocazione di tale Conferenza internazionale rappresenterebbe un elemento di forte movimento nel panorama politico mediorientale, tale da innescare processi politici profondi, che con ogni probabilità nessuno oggi è in grado di valutare appieno.
Essa potrebbe basarsi sul Piano Arabo di pace, che garantisce a Israele il riconoscimento da parte di tutti gli Stati arabi, in cambio della restituzione dei Territori occupati nel ’67, e la creazione di uno Stato Palestinese con capitale Gerusalemme Est, nonché una soluzione “equa e concordata” del problema dei rifugiati.
Va rilevato che questa formulazione, che non cita espressamente il “Diritto al ritorno”, è quanto mai aperta rispetto alle esigenze e ai timori israeliani, perché implica, appunto, che ogni soluzione debba essere concordata con lo Stato ebraico, attribuendogli implicitamente un potere di veto sulle proposte non gradite.
La proposta araba, secondo i suoi stessi promotori, non va d’altronde intesa come una proposta chiusa, da prendere o lasciare, ma come un framework di riferimento per l’avvio del negoziato. Pertanto appaiono abbastanza pretestuose le pregiudiziali ancora mantenute dalla leadership israeliana, relative al riferimento ai confini del ’67 o a quella dei rifugiati: pregiudiziali probabilmente rivolte a guadagnare tempo, più che giustificabili nel merito.
Il Piano Arabo rappresenta oramai, lo si deve dire chiaramente, “l’unico gioco sul tavolo”, dopo il fallimento del processo di pace a tappe, da Oslo alla Road Map, e dell’unilateralismo sharoniano.
Ma l’esigenza essenziale è che alla Conferenza internazionale non si arrivi senza preparazione, come avvenne a Camp David 2. Per questo vanno sviluppati tutti i contatti informali possibili.
Va altresì sottolineata l’importanza degli sviluppi dell’Iniziativa araba, che sono oggi in pieno svolgimento, con i Ministri degli esteri Giordano e Egiziano, a ciò delegati dal Summit arabo, che hanno ripetutamente incontrato la loro omologa israeliana, Tzipi Livni, e lo stesso Premier Olmert.
Si sta di fatto creando un doppio Quartetto, quello internazionale e quello arabo, che include l’Arabia Saudita, che iniziano a lavorare di conserva, in vista di un rilancio del processo negoziale e della Conferenza internazionale oramai prossima.
In buona sostanza,data la fragilità delle leadership israeliana e palestinese, l’allargamento dl processo negoziale al quadro arabo può fungere da un lato come garanzia verso Israele, dall’altro come sostegno alla leadership palestinese nel momento in cui essa è chiamata a scelte difficili e potenzialmente laceranti.
La stessa leadership israeliana, d’altro canto, è uscita con le ossa rotte dal conflitto libanese dell’estate 2006, e dalle sue ricadute pesantissime, espresse dalle impietose conclusioni dell’inchiesta Winograd
Olmert per il momento ha retto l’urto, ed è stato anzi in grado di avviare un processo di graduale consolidamento della sua stessa maggioranza, prima con l’inclusione dell’estrema destra di Lieberman, poi con l’incarico della Difesa conferito al nuovo leader laburista, il redivivo e pur sempre prestigioso Ehud Barak.
Prima dell’estate il Pemier israeliano è arrivato a riproporre a Abu Mazen una versione aggiornata e negoziata del“piano di convergenza” in Cisgiordania, erede del vecchio piano di ritiro di Sharon e in qualche misura della stessa Road Map: si tratterebbe di arrivare alla creazione di uno Stato palestinese, con confini provvisori, sul 90% della Cisgiordania e su Gaza (che sarebbero unite da un tunnel di circa 40 chilomtri), lungo i confini del muro di difesa, con scambi territoriali (che includerebbero anche i terreni necessari per il tunnel), necessari per compensare gli insediamenti che resterebbero israeliani.
Va detto che secondo i maggiori esperti, mentre è possibile ipotizzare scambi territoriali rispetto a aree del 2-3% della Cisgiordania, come previsto a Camp David 2, appare sostanzialmente impossibile prevedere scambi per tutte le aree racchiuse dal muro, che arrivano per l’appunto al 10% di quel territorio palestinese, includendo cioè non solo i grandi blocchi degli insediamenti ma anche le loro possibili espansioni future, previste dai rispettivi piani urbanistici.
Quanto a Gerusalemme, ai palestinesi verrebbero intanto riconosciuti i sobborghi arabi, intorno a Abu Dis, mentre la Città vecchia resterebbe sotto controllo israeliano.
In una seconda fase si arriverebbe a trattare sul Final Status, sui confini permanenti, su Gerusalemme, sui rifugiati.
Al di là del fatto che le proposte di Olmert sono molto più arretrate di quelle avanzate da Barak nel ’99, in particolare per quanto riguarda Gerusalemme e la quota di Cisgiordania che resterebbe israeliana, la questione è che, pur presentandosi come una tappa intermedia e provvisoria, questo assetto e quei confini avrebbero grosse probabilità di diventare definitivi, e ciò non può non allarmare in primo luogo lo stesso Abu Mazen.
Il concetto di tappe intermedie, in generale, può oggi avere un senso solo se si ha ben chiaro il possibile punto di arrivo ed i tempi necessari.

Questo dovrebbe essere quindi il compito della prossima Conferenza internazionale.
E’ tuttavia auspicabile, se si vuole evitare che ci si riduca all’ennesima parata piena di proclami ma senza sostanza, che essa si svolga sulla base di una nuova Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che detti le linee guida del possibile accordo finale, partendo dal copioso materiale esistente: le precedenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, i “parametri di Clinton” del ’99, il “Verbale Moratinos” a Taba, il Piano di Pace arabo del 2002, lo stesso sia pure informale “Modello di accordo di Ginevra del 2003”.
D’altronde, queste linee guida sono chiare a tutti.
Due stati, “basati” sui confini del ’67, che vivano in pace e in sicurezza l’uno al fianco dell’altro; possibili e limitati scambi territoriali (dell’ordine del 2-3%), nella misura di 1:1, concordati tra le parti,  per consentire a   di mantenere dentro Israele i maggiori blocchi di insediamenti lungo la linea verde e intorno a Gerusalemme, oramai difficilmente rimovibili; evacuazione di tutti gli altri insediamenti; divisione di Gerusalemme tra la parte Ovest, incluso il quartiere ebraico della Città vecchia, quale capitale israeliana, e la parte Est, inclusi gli altri tre quartieri della città vecchia (musulmano, cristiano e armeno), quale capitale dello Stato palestinese; forme di condivisione amministrativa della città vecchia; elementi di possibile sovranazionalità o forme di sospensione temporalmente limitate della stessa sovranità per i Luoghi Santi.
Per quanto riguarda i rifugiati (secondo le indicazioni del verbale Moratinos a Taba e le specificazioni del modello di Ginevra), forme di compensazione per il danno subito, diritto di tutti a rientrare nello Stato palestinese, rientro numericamente limitato in Israele, stabilizzazione negli attuali Stati di residenza con compensazioni ai paesi ospitanti, quote di immigrazione privilegiata in Europa, Canada, Australia e USA.
Israele, la cui nascita è comunque una delle cause all’origine del fenomeno, dovrebbe contribuire e farsi almeno in parte carico della sua soluzione, sulla base dello stesso documento presentato dalla sua delegazione a Taba.

Va sottolineato come la prossima Conferenza internazionale, come già la prima del ’91, dovrà essere aperta a tutti gli Stati in conflitto, e quindi vedere la presenza anche di Siria e Libano.
Quanto alla Siria, non può essere ignorata una variante negoziale che viene affacciandosi anche in Israele con una certa forza, chiamata “Syria first”: data la difficoltà di negoziare con i palestinesi, si punta a rilanciare il negoziato con la Siria, accogliendo le reiterate proposte di trattative senza precondizioni rilanciate ai massimi livelli da Damasco, proposte peraltro preparate da sostanziosi negoziati informali condotti a livelli molto alti negli scorsi mesi, e di cui ha dato dettagliata notizia il quotidiano israeliano Haaretz.
Si è arrivati a ipotizzare la creazione di un parco naturale lungo il lato sud del Golan, con funzione di cuscinetto rispetto al Lago di Tiberiade, che potrebbe facilitare la restituzione dell’intero altopiano alla Siria. Una ipotesi a cui lo stesso Olmert ha sostanzialmente aperto nell’ultimo periodo.
Si tratta di una variante negoziale cui i palestinesi guardano con una non nascosta preoccupazione, e gli USA con non superata ostilità.
Ogni volta che il negoziato con i palestinesi appare in un vicolo cieco, rispunta nella leadership dello Stato ebraico la tentazione di un aggirare l’impasse guardando a Damasco.
D’altra parte, non è che i leader siriani si sentano molto obbligati e vincolati rispetto ai cugini palestinesi, che anzi accusano di averli ripetutamente scavalcati aprendo negoziati diretti con Israele, a cominciare proprio dalla Conferenza di Madrid: uno sgarbo che non è stato dimenticato.

Quanto al Libano, invero non si comprende perché non venga affrontata più decisamente la questione delle “Fattorie di Shebaa”, che restano l’unico elemento di contenzioso con Israele: lo Stato ebraico non ne rivendica la sovranità, ma la attribuisce alla Siria, e quindi ne rinvia l’evacuazione al momento della conclusione delle trattative con Damasco.
La soluzione di un affidamento temporaneo alle forze dell’ONU di questo pugno di chilometri quadrati potrebbe essere il classico uovo di Colombo per porre fine allo stato di guerra con il Paese dei cedri.
Nella Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza della scorsa estate, che ha istituito la nuova Forza di interposizione al confine con Israele, affidata all’UNIFIL, si dava mandato al Segretario dell’ONU di approfondire il problema di Shebaa e di presentare proposte. Non si comprende perché la questione, di vitale importanza per stabilizzare la situazione libanese e porre fine al conflitto, sia rimasta nel dimenticatoio e rinviata a tempi migliori, proprio mentre si fanno più minacciose le aggressioni dei gruppi qaedisti nell’area e sembrerebbe urgente eliminare l’oggetto di possibili nuove tensioni e provocazioni.
Contestualmente, va secondata l’iniziativa francese volta a favorire la rinnovata creazione di un Governo di unità nazionale nel paese, che includa anche le componenti filosiriane e specificamente anche Hezbollah, d’altronde forza di maggioranza almeno relativa nel paese e nella società.

Quello che è certo è che la Siria non può essere messa ai margini del processo negoziale. Si dice che in Medio Oriente non si può fare la guerra senza l’Egitto e non si può fare la pace senza la Siria, ed è vero. Essa ha i mezzi e la determinazione, se messa all’angolo, per intralciare e rendere impossibile qualsiasi ripresa del processo negoziale, in Palestina come in Libano, sia direttamente che attraverso i movimenti ad essa alleati e da essa sostenuti e protetti, Hezbollah e Hamas.
Questo naturalmente non significa voler coprire le pesanti responsabilità siriane, in particolare in Libano e in relazione alla pesante catena di attentati rivolti contro le più prestigiose personalità del paese, a cominciare dall’assassinio del precedente Premier Hariri.
Ma ignorare il suo ruolo e il suo peso nella regione può solo condurre a guai ancora più gravi, rafforzando ulteriormente l’asse di Damasco con Teheran.
Anche da questo punto di vista, una Conferenza internazionale potrebbe svolgere una funzione di raccordo tra i diversi segmenti negoziali, garantendone, in mancanza di una opportuna ma improbabile simultaneità, almeno una necessaria e stretta correlazione.

La questione israelo palestinese è destinata comunque a restare il cuore del conflitto israelo-arabo.
Ma il tempo non lavora per la pace. Se non si arriverà entro alcuni anni alla soluzione “Due stati”, questa potrebbe rivelarsi impraticabile, anche per il continuo sviluppo degli insediamenti ebraici.
In tal caso si rafforzerebbe in modo irresistibile la proposta recentemente rilanciata dal prof. Jarbawi, il quale suggerisce che il Presidente Abu Mazen dichiari sciolta l’esperienza dell’ANP, prendendo atto della realtà, e riconsegni le chiavi alla potenza occupante, perché si faccia carico, secondo la legislazione internazionale, dei problemi della popolazione: scuola, sanità, sicurezza etc.: una prospettiva pesantissima, anche finanziariamente, per Israele.
Questo, in prospettiva, potrebbe portare alla richiesta, da parte dei palestinesi, di essere integrati come cittadini israeliani a pieno titolo.
Si tratta, va detto, di posizioni già sostenute, in passato, dal Prof. Sari Nusseibeh, il figlio dell’ultimo Sindaco arabo di Gerusalemme, e attuale Presidente della Università palestinese di Al Qud – Gerusalemme.
Le sue posizioni erano state profondamente influenzate dalle elaborazioni di Meron Benvenisti, un professore israeliano che è stato Vice Sindaco di Gerusalemme. Questi sosteneva che l’ipotesi due Stati non è praticabile, perché oramai i due popoli e le due società sono troppo strettamente legate e interconnesse.
Nusseibeh sviluppava questi concetti, proponendo ai palestinesi di seguire una via sudafricana: chiedere l’annessione dei Territori occupati ad Israele, e successivamente iniziare la lotta per ottenere di essere riconosciuti come cittadini di pari diritti.
Poiché le tendenze demografiche, anche secondo gli studi del grande demografo italo-israeliano, Sergio Della Pergola, fanno ritenere che nel volgere di pochi anni la popolazione arabo-palestinese arriverà a superare quella ebraica (comprendendo sia gli arabi israeliani che quelli dei territori occupati),  di fatto Israele si troverebbe ad un bivio: o negare loro uguali diritti di cittadinanza, instaurando una sorta di apartheid, incompatibile con la sua identità storica; o riconoscerli come cittadini pari agli altri, rinunciando di fatto al sogno di uno Stato ebraico e accettando la creazione di uno Stato binazionale, che era poi la proposta originaria dell’OLP.
D’altronde è proprio per esorcizzare tale prospettiva, che Sharon aveva concepito l’idea di un ritiro unilaterale dai territori palestinesi a maggiore densità di popolazione, una concezione naufragata a Gaza, con il rapimento del caporale Shalit e poi con la guerra in Libano.
Va detto, per scrupolo di oggettività, che la crisi dell’ANP ha rilanciato potentemente tale concezione nella società e soprattutto nella leadership palestinesi, come unica via percorribile dopo il fallimento degli Accordi di Washington.

(Questo saggio sarà pubblicato sul prossimo numero di Politica Internazionale dell’IPALMO)

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

Leggi tutti gli EDITORIALI