L’Editoriale 

Israele, esaurimento di una leadership

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 3 maggio 2007

La crisi politica israeliana, determinata dal rapporto Winograd sulle responsabilità di quella leadership nella guerra libanese della scorsa estate, ha scardinatola credibilità di Olmert e di Peretz. Le conclusioni della Commissione evidenziano impietosamente la mancanza di preparazione, la mancata individuazione delle possibili alternative, quella sanguinosa offensiva finale, prolungata anche dopo il cessate il fuoco pronunciato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che costò la vita anche al figlio di David Grossman.

I due sembrano resistere pervicacemente ai loro posti, tetragoni a quel livello del 3% sotto cui è precipitata la loro popolarità presso l’opinione pubblica. Ma le loro dimissioni sembrano oramai solo questione di tempo. La stessa minaccia di una possibile vittoria di Netanyahu, in caso di elezioni anticipate, non sembra più far presa.

Ma sono i loro stessi partiti ad essere squassati dal tifone politico: i laburisti potrebbero scegliere di riaffilarsi all’uomo forte Barak, malgrado le sue responsabilità nel fallimento del negoziato di Camp David 2, e in quel ritiro unilaterale dal Libano, dell’estate 2000, che in larga misura è all’origine della guerra della scorsa estate.

Quanto a Kadima, la pretendente più innovativa, complessa e sofisticata è certamente il Ministro degli Esteri Tzipi Livni, che anche in questi giorni rivendica la sua condotta più moderata e lungimirante durante quella guerra, ma che pure presenta gli stessi dati di inesperienza militare che sono rimproverarti ai due leader sotto accusa.

In questa situazione, Shimon Peres potrebbe emergere come soluzione di transizione, anche se certo la sua non si presenta come una soluzione davvero credibile, lui che non ha mai vinto una competizione elettorale, ed è visto come un uomo del passato e non certo del futuro.

Israele si presenta oggi sullo scenario internazionale e su quello regionale privo di una credibile strategia, e di un messaggio accettabile per i suoi interlocutori. Caduta l’impostazione dei ritiri unilaterali – dal Libano, da Gaza e quello, annunciato, dalla Cisgiordania, – ciò che è rimasto in piedi è una politica del giorno per giorno, condita da qualche incursione e qualche uccisione mirata per tenere i gruppi armati palestinesi sotto scacco, e impedire una ripresa massiccia degli attacchi terroristici. Con un esercito che oramai si è abituato a fare il poliziotto dei palestinesi, e non è più capace di fare bene la guerra.

Gli incontri quindicinali con Abu Mazen, imposti da Condoleezza Rice e subiti di malavoglia da Olmert, si sono presto ridotti a uno stanco rituale privo di contenuti, senza risultati in materia di rilascio dei prigionieri, di eliminazione dei blocchi stradali in Cisgiordania.

Persino il recente rilancio del Piano di pace arabo, effettuato con il recente vertice di Ryad, e che propone il riconoscimento dello Stato di Isrele da parte di tutti gli Stati arabi, in  cambio della creazione di uno Stato palestinese e della restituzione dei territori occupati (sulla falsariga delle principali risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU) è stato accolto con distinzioni più degne di un leguleio che di uno statista, lamentando ad esempio che esso richiedesse il diritto al ritorno per tutti i profughi, diritto che il Piano significativamente non nomina neanche.

Alla base di questa inadeguatezza strategica, è la valutazione che sia possibile arrivare ad una pace con i palestinesi e gli arabi senza pagare prezzi sostanziali, “la pace in cambio della pace”, come diceva Sharon. Mantenendo il Golan, e una larga fetta della Cisgiordania, circa il 10% quella compresa dentro il muro, e cioè molto di più di quegli scambi territoriali di circa il 3%, di cui si era discusso a camp David 2. Questa illusione non ha sbocco, e porta Israele in un vicolo cieco.

La nuova leadership dovrà scegliere se avere una visione, una strategia, se osare la pace, affrontando i nodi del final status, o continuare nel tran tran senza futuro di quest’ultimo anno.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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