L’Editoriale 

Dalla Mecca a Riad

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 29 marzo 2007

Il vertice arabo che si è aperto mercoledì a Riad riveste un’importanza cruciale. Di fatto, dopo l’ibernazione della Road Map, il Piano arabo del 2002 è l’unico rimasto sul tappeto.
Anche in Israele si moltiplicano le voci, non solo di prestigiosi analisti come Akiva Eldar di Haaretz, ma anche di personalità come il Ministro Meir Sheetrit, di Kadima, che indicano in quel piano la base per un rilancio del negoziato. Lo stesso Olmert ha ammesso che il riconoscimento, sia pur condizionato di Israele, che esso contiene, costituisce un fatto interessante che non può essere ignorato. Tuttavia le dichiarazioni del Premier israeliano, e del suo Ministro degli Esteri Tzipi Livni, condizionano l’accettazione della proposta alla introduzione di importanti modifiche, relative al diritto al ritorno o alla definizione dei confini.
A dire il vero, nel testo della Dichiarazione di Beirut non si parla di “diritto al ritorno” (e questa omissione non è certo priva di significato), ma di una “giusta soluzione” che deve essere “concordata” con Israele, in accordo con la risoluzione 194 dell’Assemblea delle Nazioni Unite. La temuta invasione dello Stato ebraico da parte dei rifugiati palestinesi appare perciò almeno sprporzionata, dato che il previsto e necessario accordo di Israele dà sufficienti garanzie allo Stato ebraico. Anche l’altro aspetto che ha creato preoccupazioni in Israele, e cioè la richiesta di un ritorno ai confini del ’67, non è molto più che una posizione di principio, da verificare in base al concreto sviluppo delle trattative. Autorevoli fonti saudite hanno ripetutamente affermato che ogni variazione dei confini, basata su scambi territoriali accettati dalle parti in causa, potrebbe essere recepita nell’ambito dell’iniziativa araba.
Sono comprensibili i tentativi, rilanciati anche ieri da Condoleezza Rice dalla sua conferenza conclusiva a Gerusalemme, e ripresi da fonti informali saudite, di allentare un po’ i termini della dichiarazione, facendo ad esempio riferimento a possibili compensazioni per i rifugiati che non volessero rientrare. Ma la questione di fondo è che il Piano arabo non è una proposta di dettaglio, ma è una dichiarazione di principio, un framework per l’apertura dei negoziati, e non necessariamente deve esse accettata in toto e pregiudizialmente dalla controparte. E’chiaro che in apertura la parte araba non può che presentarsi con alcune proposte minime di partenza, quale la rivendicazione dei confini del ’67.
Qui si apre tuttavia un altro problema, la proposta araba punta sul final status, il negoziato finale per la soluzione del conflitto. Ma da parte israeliana non c’è alcuna disponibilità a misurarsi su questo terreno, almeno fin quando sarà Olmert a guidare il paese. Il Premier israeliano è in attesa delle conclusioni dell’inchiesta sulla guerra in Libano, che con ogni probabilità lo costringerà alle dimissioni, e non pare in grado di affrontare alcuna discussione o prendere alcuna decisione di portata storica. Gli israeliani lamentavano di non avere un interlocutore palestinese credibile, ora sono loro a non esserlo.
Un altro aspetto essenziale appare la necessità di non tagliare fuori la Siria dal possibile rilancio negoziale, e di non dare neanche l’impressione di volerlo fare. Il detto “in  Medio Oriente non si può fare la guerra senza l’Egitto e non si può fare la pace senza la Siria” appare oggi più che mai valido, dati anche i risvolti libanesi e l’influenza esercitata da Damasco su Hamas. D’altro canto, se si vuole allentare i legami dei siriani con l’Iran, si deve offrir loro una prospettiva, un orizzonte sostanziale di pace.
L’affondamento precipitoso, effettuato dal premier israeliano, del negoziato informale israelo-siriano, rivelato da Haaretz, e che era arrivato a importanti conclusioni, non lascia ben sperare al riguardo.
Infine, la contestuale presenza a Riad di Abu Mazen e di Haniyeh, conferma che l’accordo per la formazione del Governo Nazionale Palestinese, non a caso stretto alla Mecca sotto l’egida di Re Abdullah, è destinato ad essere recepito e fatto proprio dal Vertice arabo, che se ne fa in tal modo garante. Ciò segna una diminuzione dei margini di indipendenza palestinese, ma dà al nuovo governo una autorevolezza e un sostegno di cui Israele dovrebbe tenere conto. Contestualmente vincola Hamas, malgrado le sue forti resistenze interne, a quella accettazione del Piano arabo già prevista alla Mecca, con il superamento del rifiuto pregiudiziale a riconoscere lo Stato ebraico.
Se Israele dovesse respingere ancora una volta l’offerta araba, questo porterebbe un colpo assai forte alla credibilità del campo arabo moderato e in primo luogo della dinastia saudita, e rafforzerebbe le forze dell’estremismo islamico e di Al Qaeda, che non a caso si è scagliata contro Hamas per l’accordo raggiunto con Fatah.
Più in generale, Riad segna una chiamata a raccolta del campo sunnita contro l’invadenza sciita e iraniana. Il rifiuto israeliano, e l’insufficiente appoggio della Comunità internazionale, potrebbe avere effetti nefasti.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

Leggi tutti gli EDITORIALI