L’Editoriale 

L’immobilismo genera mostri

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 9 novembre 2006

Il massacro di civili perpetrato dagli israeliani a Gaza ricorda da vicino quello libanese di quest’estate, a Cana. Il diritto di autodifesa israeliano di fronte al martellamento di razzi e missili è innegabile, e internazionalmente riconosciuto, ma episodi come questi, oltre che alle innocenti vittime, recano allo Stato ebraico un danno assai maggiore dei razzi kassam.
Probabilmente si è trattato di un errore, ma editorialisti israeliani, nei giorni scorsi, avevano scritto della tentazione di settori militari di “fare come in Libano”, facendo pagare con azioni su larga scala alla società civile palestinese l’incapacità di mettere a tacere i lanciatori di razzi con azioni mirate.
I dirigenti di Hamas hanno reagito regredendo alle minacce di morte contro i civili israeliani, dichiarando che la tregua è rotta, e auspicando che Israele “cessi di esistere”. Tutto il mondo arabo è in rivolta.
Italia ed Europa devono condannare con energia, come hanno già fatto, il massacro, ma ciò non basta. Per spezzare questa orribile spirale di morte è necessaria una iniziativa politica forte, paragonabile a quella così creativa e positiva sviluppata in Libano questa estate.
La Comunità internazionale non può continuare a trincerarsi dietro la Road Map e le “tre condizioni” poste dal quartetto al Governo Hamas (riconoscimento di Israele, fine della violenza, riconoscimento dei trattati pregressi). Non è questo oggi il punto di riferimento concreto per il rilancio della iniziativa di pace. Persino il Ministro israeliano della Difesa, Amir Peretz, ha riconosciuto come il Piano Arabo di pace del 2002 può essere una base valida per la ripresa del negoziato, anche se esso contiene sul riconoscimento di Israele formulazioni più blande, e condizionate alla creazione di uno Stato palestinese.
Le trattative tra Abu Mazen e Hanyieh, nelle settimane scorse, hanno avuto per base quel piano, insieme al “Documento dei Prigionieri”, che postula, tra l’altro, una sostanziale rinuncia alle azioni contro i civili dentro Israele, accompagnata da una tregua (“hudna”) nelle azioni militari nei territori palestinesi.
Contro quell’ipotesi di accordo si è espresso il Console degli Stati Uniti a Gerusalemme, in un teso incontro  con Abu Mazen, alla vigilia della sua partenza per partecipare alla Assemblea dell’ONU. Ciò ha indotto il presidente palestinese a fare marcia indietro, tornando ad allinearsi sulle “tre condizioni”, e facendo così naufragare il negoziato in corso.
La realtà è che anche dentro Al Fatah si confrontano due linee, tra cui il Presidente palestinese ondeggia: quella dello show down con Hamas, considerato poco più di un usurpatore temporaneo di un potere conquistato occasionalmente e quasi per errore, e che ora deve essere costretto a restituirlo, con le buone o con le cattive. E quella che punta ad una ripresa della trattativa per formare un Governo di Unità Nazionale, o un Governo di tecnici.
La prima linea fa affidamento sulle promesse USA di finanziamenti al Presidente, sui seimila poliziotti palestinesi addestrati in Giordania e che potrebbero essere autorizzati da Israele ad affluire a Gaza, per riequilibrare il rapporto di forza con Hamas; e su qualche ulteriore concessione da parte israeliana, come la riapertura dei valichi israeliani con Gaza, su cui stanno negoziando gli americani, o il rilascio di un forte numero di prigionieri.
Questa posizione è in consonanza con quella di settori statunitensi, ed israeliani, che giudicano Hamas, insieme a Hezbollah, parte dell’”Asse del male, e pertanto spingono per ricacciare fuori dal governo la formazione islamica.
Ma altri, come Condoleezza Rice, dichiarano che è “meglio ritrovarsi quelli di Hamas al potere che nelle strade, armati e mascherati”.
La realtà è che Abu Mazen e Al Fatah, da soli, non sono più in grado di riprendere il negoziato con Israele, e Israele e gli USA lo sanno perfettamente. Il massacro di oggi testimonia, d’altronde, l’insostenibilità di una strategia basata solo sulla repressione e il mantenimento forzoso dello status quo, adottato dal Governo israeliano dopo l’annunciato congelamento del piano di ritiro dalla Cisgiordania.
Italia e Europa devono, prima che sia troppo tardi, appoggiare l’altra linea, quella del rilancio del negoziato, che deve necessariamente passare per il varo di un Governo di Unità nazionale, cui vanno date le necessarie garanzie di riconoscimento internazionale e di appoggio finanziario, sulla base di condizioni realistiche e non astrattamente ideologiche.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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