L’Editoriale 

La vittoria di Hamas apre la strada all’unilateralismo

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:28 febbraio 2006

La vittoria di Hamas è innanzi tutto frutto del suo radicamento sociale, della dedizione e della integrità con cui ha assicurato l’assistenza agli strati più disagiati della popolazione palestinese, grazie anche ai copiosi finanziamenti assicurati dall’Iran, da altri finanziatori sauditi e da altri Paesi arabi.
Ma questa formazione islamica è stata anche percepita dalla popolazione come estranea e non compromessa rispetto al sistema di potere eretto dentro l’Autorità Nazionale Palestinese, sentito oramai come un peso insopportabile nella generale situazione di crisi di quella società.

Estranea, infine, a quello stesso processo di pace che pure tante speranze aveva suscitato, ma che alla fine nel comune sentire della gente è risultato una scatola vuota, senza corrispondenza con il vissuto quotidiano dell’occupazione, della violenza, della repressione.

Questa vittoria è anche la sconfitta di Al Fatah, un partito fattosi Stato, sulla falsa riga di tanti altri movimenti di liberazione nazionale, un po’ come l’FLN algerino. Un partito che non aveva più curato i rapporti con la società e i suoi problemi quotidiani, un partito di mera gestione del potere, troppo spesso basato sulla corruzione e sull’esercizio della forza.

Un partito, infine, la cui leadership ha commesso il tragico errore di avallare, alla fine del 2000, il processo di militarizzazione dell’intifada, scatenando un processo di frantumazione delle forze e dei gruppi armati, e di via libera all’azione dei diversi gruppi fondamentalistici, da cui ha finito per restare sommerso.

Il processo di sfaldamento di Fatah è stato invano contrastato dal gruppo dei giovani leader raccolti intorno a Marwan Barghouti, e che avevano costituito il nerbo dirigente della nuova Intifada. Barghouti, dal carcere israeliano dove è rinchiuso, condannato a diversi ergastoli, aveva concordato con Abu Mazen, in cambio della sua mancata candidatura alle elezioni presidenziali palestinesi, la convocazione del congresso del Partito, che non si tiene più da 16 anni, ma anche questa promessa è restata sulla carta.

Alle primarie precedenti le elezioni questo gruppo aveva riportato nette affermazioni, riuscendo alla fine ad imporre dopo forti contrasti Barghouti come capolista al posto del Premier uscente Abu Ala, che non si è presentato dopo aver minacciato liste alternative. Ma il tentativo di rinnovamento, avallato dopo forti esitazioni e incertezze da Abu Mazen, è arrivato tardi, e i legami sociali perduti in tanti anni non potevano certo essere ricostituiti in qualche settimana.

La Nuova Generazione di Al Fatah ha ora di fronte un difficile compito di ricostruzione e forse di rifondazione del partito, che non potrà non prendere le mosse da una estesa azione di pulizia e da una approfondita riflessione politica e strategica.

Non è da escludere, peraltro, una deriva estremistica di questa formazione, che potrebbe essere tentata da velleità di scavalcare in chiave movimentistica un Hamas condizionato dalle responsabilità di governo. Una deriva di cui si è colta già qualche avvisaglia, nelle manifestazioni promosse per le vignette danesi, a cui Hamas contrariamente a Fatah non ha partecipato.

La situazione ora si presenta molto intricata. Sono venuti meno i cardini su cui si è basato il processo di pace da Oslo in poi, i suoi punti di riferimento essenziali, che sono rifiutati e disconosciuti da Hamas.

Questa formazione tuttavia oggi è chiamata a responsabilità di governo, e certo non potrà limitarsi a proclamare degli slogan passionali ma di difficile applicazione.
Hamas, in altri termini, è chiamata a scegliere se essere partito di governo o partito di lotta, di lotta armata. Un bivio che cercherà in ogni modo di evitare, sulle orme dell’IRA irlandese rispetto al Sinn Fein.

In ballo ci sono i sostanziosi aiuti assicurati dall’Europa, il rischio che il mondo vari misure ostili. Su questo, si è creata una netta diversificazione tra Stati Uniti ed Europa, i primi orientati a bloccare, in sintonia con Israele, gli aiuti all’ANP, per creare difficoltà ad Hamas e strangolare il suo governo nascente, la seconda al contrario disposta a concedere un “periodo di grazia” alla nuova leadership palestinese.
Russia e Turchia, dal conto loro, hanno scelto di ricevere i nuovi leader, pur premendo su di loro perché abbandonino la scelta del rifiuto e della lotta armata.
Va detto che la stessa posizione del Governo israeliano è stata meno decisa di quella USA, almeno all’inizio, anche se il periodo elettorale non è tale da spingere a concessioni e aperture. Israele è interessato a che la situazione sociale palestinese non collassi, facendo ricadere sulla potenza occupante le conseguenti responsabilità di mantenimento della popolazione civile, e che la disperazione non porti ad una rottura della tregua e ad una ripresa dell’escalation terroristica.

Nel frattempo, è probabile che Hamas riconfermi unilateralmente, anche a lungo termine, la tregua oramai in atto da circa un anno, e sostanzialmente da lei rispettata, contrariamente al Jihad islamico. Ciò consentirà di non irritare inutilmente il mondo e di non suscitare la incombente reazione israeliana.

Ma è assai difficile che il nuovo partito al governo della Palestina voglia prendere parte a Negoziati che comporterebbero il riconoscimento di Israele.

I contatti diplomatici, il “lavoro sporco” direbbero loro, lo lasceranno al Presidente Abu Mazen, e forse a quello stuolo di consiglieri politici di provenienza Fatah, che altrimenti rischiano di restare disoccupati. Loro preferiranno non sporcarsi le mani col nemico sionista, anche per mantenersele libere. E concentrarsi sui problemi quotidiani della popolazione, cercando di rispondere alle sue esigenze più immediate, in base alle richieste primarie del loro stesso elettorato.

Un processo analogo, e per certi versi speculare, è prevedibile in campo israeliano.
La affermazione di Hamas rinforzerà probabilmente Kadima, il partito fondato da Sharon e che ne è l’erede politico, a scapito del Labour e della estrema sinistra di Meretz- Yahad. È improbabile che ad avvantaggiarsi della nuova situazione sia il Likud, perché l’opinione pubblica non vuole nuove avventure, tende a rinchiudersi e ad essere rassicurata.

Ma certamente i dirigenti israeliani, che già avevano affermato l’inesistenza di un partner negoziale palestinese, riferendosi ad Arafat, potranno ripeterlo con maggior fondamento oggi, mentre alla testa dell’ANP vi è una formazione che dello Stato ebraico disconosce l’esistenza e non vuole rinunciare formalmente alla lotta armata, anche se in questa fase accetta di non praticarla.

Le tendenze unilateralistiche, che già erano forti in quel Paese dopo il successo dell’operazione di ritiro da Gaza, tenderanno a rafforzarsi, nel senso di nuove iniziative di disimpegno dalle aree più popolate della Cisgiordania, attenuando così la pressione demografica della popolazione araba, a costo di abbandonare gli insediamenti isolati esistenti in tali zone, ma rafforzando al contrario il controllo sul blocco degli insediamenti più grandi, dislocati dietro il muro o barriera difensiva che dir si voglia, e sui punti di controllo strategico e di sicurezza lungo la Valle del Giordano.

Una tendenza che potrebbe arrivare fin alla definizione unilaterale di un nuovo confine, che certo sarebbe precario e non riconosciuto internazionalmente. Ma Israele, dietro un confine precario, vive dalla sua nascita.

Non è escluso che tali ritirate siano in qualche modo coperte dalla tolleranza di Hamas, che, come ha già fatto a Gaza, potrebbe impegnarsi a evitare azioni di disturbo, pur di ottenere la liberazione di nuovi territori.

I processi di evoluzione nei due campi saranno necessariamente lunghi, ammesso che ce ne siano. Hamas dovrà confrontarsi con la pratica di governo e con il suo bagaglio ideologico, probabilmente facendo fronte a momenti di confronto interno assai aspro. Fatah dovrà sviluppare un difficile processo rifondativo, il cui esito non è certo scontato.

Israele, per parte sua, dovrà confrontarsi con una situazione totalmente nuova, riflettendo anche sulle sue scelte passate, lontane e più recenti: aver perso la finestra di opportunità creata dagli accordi di Washington è certamente una delle cause essenziali della situazione odierna. Così come una maggior generosità nel rilascio dei prigionieri palestinesi prima di queste elezioni, come era stato insistentemente richiesto, avrebbe potuto aiutare non poco la posizione di Abu Mazen.

Quello che pare profilarsi, sul medio periodo, è un processo di unilateralismi paralleli, non necessariamente conflittuali, ma non in grado di dialogare se non in maniera indiretta o nella pratica quotidiana sul terreno.

Un percorso irto di rischi, in cui la Comunità internazionale sarà chiamata a svolgere un delicato ruolo di contatto anche informale e di “interpretariato” per evitare che la situazione conosca deflagrazioni improvvise, anche non volute, ma costantemente possibili.

Un possibile punto di riferimento potrebbe diventare la vecchia proposta di pace saudita, approvata dal Vertice di Beirut del 2002, che può offrire un quadro panarabo ad Hamas per giungere al riconoscimento di Israele, in cambio del ritiro dai territori occupati e della creazione di uno Stato palestinese. Quello che è sicuro è che il vecchio processo di pace “per tappe”, avviato a Oslo nel 1993, appare oramai definitivamente consunto.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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