L’Editoriale
La partita tra Sharon e Peres
di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente
Data pubblicazione: 29 novembre 2005
Il panorama politico israeliano appare radicalmente sconvolto dagli avvenimenti delle ultime settimane.
La decisione di Sharon di uscire dal Likud e di fondare un nuovo partito non può certo dirsi un fulmine a ciel sereno. E’ l’onda lunga del ritiro da Gaza, e della sua portata dirompente sugli assetti politici del paese.
Il mito del Grande Israele è crollato, così come la presunta intangibilità degli insediamenti nei territori palestinesi. Lo scontro tra gli ideologici puri e duri che a quell’impostazione non intendevano rinunciare, e i realisti che in quel partito erano divenuti consapevoli della impossibilità di continuare, fino alle estreme conseguenze, nell’occupazione integrale delle aree palestinesi, non ha potuto trovare composizione all’interno del vecchi involucro, che è andato in pezzi.
La parte restante del Likud appare per un lungo periodo essere destinata ai margini del panorama politico israeliano, e probabilmente arriverà a fondersi con gli altri partiti minori dell’estrema destra, formando un blocco forte di consensi ma nettamente minoritario e isolato.
Molte ragioni hanno spinto il vecchio premier a questo passo.
La consapevolezza che la continuazione integrale dell’occupazione, e l’annessione di quei territori, avrebbe prodotto nel volgere di pochi anni uno sconvolgimento dell’equilibrio demografico del paese, con una prevalenza degli arabi sugli ebrei, oppure la fine del suo carattere democratico, se agli arabi non fossero stati garantiti uguali diritti civili.
La stanchezza della società israeliana, attanagliata dalla crisi economica e profondamente segnata dal terrorismo e dall’angoscia quotidiani.
La convinzione che, in termini di sicurezza, non era né necessario né conveniente mantenere il controllo su tutte le terre palestinesi, e che era assai meglio abbandonare quelle aree che, “anche nell’accordo di pace più favorevole per Israele”, non avrebbero potuto comunque essere mantenute.
L’aspirazione di passare alla storia non come l’uomo di Sabra e Chatila, ma come il leader che aveva assicurato a Israele pace e sicurezza.
Perché Sharon vuole la pace, ma pensa a una pace alle sue condizioni, le più favorevoli per Israele.
Quindi, secondo lui, la nuova linea difensiva, da lui progettata in chiave unilaterale, e che coincide in larga misura con il tracciato del muro o barriera difensiva, come li si voglia chiamare, al termine del negoziato potrebbe in larga misura segnare i confini definitivi di Israele, con l’aggiunta di alcuni avamposti di sicurezza lungo la valle del Giordano.
Si tratta, in concreto, del 7% della Cisgiordania (questa è l’area racchiusa dal muro dopo le numerose riduzioni e variazioni al tracciato imposte dalla Corte Suprema israeliana), rispetto a quel 2,5-3% di cui si era discusso a Camp David e Taba, sulla base di possibili scambi territoriali con i palestinesi.
E’ l’area che racchiude i grandi insediamenti israeliani, con le loro possibili estensioni: insediamenti che, anche in base allo scambio di lettere di Sharon con Bush, dovrebbero restare israeliani.
Il pendolo della pace quindi oscilla tra quel 3% e quel 7%, e il punto dove si fermerà dipende da alcune variabili.
La prima tra esse è quello che appare l’unico competitore di Sharon, quell’Amir Peretz che ha sconfitto Shimon Peres alle primarie divenendo il nuovo leader del Labour.
Già Segretario del sindacato Histadrut, di origine sefardita (cioè proveniente dai paesi arabi), Peretz pare in grado di parlare agli strati più disagiati della popolazione, anche essi prevalentemente sefardita, che hanno pesantemente risentito delle politiche neoliberiste condotte da Netanyahu, e degli effetti più complessivi della crisi economica originata dall’intifada.
Nel confronto-scontro tra i due, curiosamente Sharon porterà avanti i temi della pace, presentandosi come l’unico in grado di raggiungerla garantendo la sicurezza, mentre l’altro farà perno soprattutto sui temi economici, naturalmente senza rinunciare a proporsi come un più convinto assertore della pace.
I sondaggi oggi danno un vantaggio di 5-6 seggi di Sharon sul Labour, segnalando un crollo verticale del Likud. Ma non è detto che nel prosieguo Peretz non riesca a rimontare.
I due sono comunque destinati a governare insieme, ma non è secondario, per il futuro della pace, chi fra loro sarà il numero uno, chi darà il là nella ripresa e nello sviluppo delle trattative. L’adesione di Shimon Peres, il vecchio leader laburista, al nuovo Partito di centro, può da questo punto di vista pesare negativamente sulle possibilità di vittoria della sinistra.
Gli altri alleati potenziali di questo centro-sinistra o sinistra-centro in formazione sono, alternativamente, i partiti religiosi (Shas etc.), o il partito laico SHINUI, insieme a YAHAD, il partito di estrema sinistra guidato da Yossi Beilin, che pare destinato a perdere suffragi verso un Labour che si è spostato a sinistra.
L’ultima incognita è data dai palestinesi, e dai risultati delle loro elezioni legislative di gennaio, che vedrà per la prima volta presente la formazione islamica HAMAS, grazie al tentativo, condotto da Abu Mazen, di incanalarla nel quadro dell’ANP. La competizione tra HAMAS e Al Fatah determinerà l’esito delle consultazioni, con ovvie ricadute sul panorama politico israeliano.
Ma va tenuto anche presente il confronto in atto dentro Al Fatah, tra la vecchia e la nuova guardia, con un Abu Mazen che appare alleato ai giovani per emarginare il vecchio entourage già legato a Arafat, un entourage conservatore e corrotto.
In questo doppio confronto, il leader dell’Intifada oggi in carcere, Marwan Barghouti, che ha trionfato nelle primarie di A l Fatah, potrebbe giocare un ruolo decisivo.
In questo contesto il ruolo delle terze parti internazionali sarà essenziale, e l’apertura a Gaza del valico di Rafah con l’Egitto, con la presenza di osservatori Ue capeggiati dall’Italia, è un segno nuovo e importante che fa ben sperare.
NOTE SULL'AUTORE
Janiki Cingoli
Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.
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