L’Editoriale 

La forza di Sharm El Sheikh poggia sulla rottura col passato

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:10 febbraio 2005

L’accordo per deporre le armi, raggiunto a Sharm El Sheikh tra Sharon e Abu Mazen, alla presenza del Presidente Mubarak e Re Abdallah di Giordania, ha natura assai diversa da quelli che l’hanno preceduto in questi anni insanguinati, e che sono restati sulla carta.

Esso si basa infatti su una scelta di discontinuità con il passato, realizzatasi in Israele e Palestina.

In Palestina avanza una de-arafatizzazione di fatto, non proclamata ma oramai in pieno sviluppo. Ciò vale sia per la decisione di interrompere l’Intifada armata, da sempre considerata dal nuovo Presidente dell’ANP una scelta sbagliata e dannosa per gli interessi palestinesi e di intervenire decisamente per bloccare il terrorismo e di rilanciare il negoziato con Israele; sia  per la volontà, ribadita da Abu Mazen, appena eletto, di procedere, parallelamente e simultaneamente,  con la riforma interna dell’ANP, attraverso la convocazione delle elezioni legislative per il prossimo luglio, e con quelle per i Consigli Comunali oramai avviate; la organizzazione, in agosto, del Congresso di Al Fatah, i cui organismi non venivano rieletti da oltre dieci anni; la riforma e la riunificazione dei servizi di sicurezza, con il ricambio dei loro dirigenti; la realizzazione di  una effettiva separazione dei poteri, tra Presidente, Esecutivo e Legislativo, con una gestione più manageriale dei sistemi di governo; la nuova trasparenza nella gestione delle finanze; l’impronta pluralistica, non agitatoria e non apologetica impressa alla TV nazionale.

Si stanno smantellando, in estrema sintesi, i bastioni su cui si era retto il sistema di potere di Arafat, accentrato, autoritario e personale, e fondato sul modello del partito-stato.

Parallelamente, va avanti il tentativo di inglobare nelle forze di sicurezza i gruppi armati legati ad Al Fatah, come i martiri di Al Aqsa, e di favorire la trasformazione dei gruppi della resistenza islamica, come HAMAS e Jiad islamico, in partiti politici. La annunciata partecipazione di HAMAS alle elezioni legislative, e la sua affermazione nelle recenti elezioni municipali a Gaza, sono elementi importanti che sembrano confermare questa direzione di marcia. Naturalmente, le infrazioni e le rotture della tregua effettuate da HAMAS in questi giorni, confermano quanto contrastato e difficile sia questo processo, il cui esito non può dirsi scontato.

Sul versante israeliano, si può parlare, un po’ paradossalmente, di un processo di auto-de-sharonizzazione. Lo stesso Sharon lo ha ricordato nel suo discorso, affermando che era giunto il momento di rinunciare a molti dei sogni del passato in nome della realtà e del bisogno di arrivare alla pace, e che questo valeva anche per i palestinesi.

Il leader israeliano, con il suo piano di ritiro da Gaza, rinuncia di fatto al sogno della Grande Israele. L’annunciata evacuazione, ad opera di un leader del Likud, di 25 insediamenti ebraici, di cui quattro in Cisgiordania, è destinata a stabilire un precedente che la destra israeliana non potrà ignorare o rinnegare neanche in futuro.

Alla base della svolta del Premier, aspramente contrastata nel suo stesso partito, vi è la convinzione, raggiunta dopo quattro anni di Intifada che hanno causato altissimi prezzi umani, politici e economici per il paese, che la questione palestinese non può essere affrontata solo in termini di repressione militare, e che il mantenimento dell’occupazione su tutti i territori conquistati con la guerra dei 6 giorni è insostenibile anche in termini di sicurezza.

Sharon ha concepito inizialmente il ritiro come un ripiegamento militare, unilaterale, da quei territori in cui “anche in base all’accordo di pace più favorevole a Israele non si può prevedere che restino a vivere degli ebrei”, ed ha rafforzato questa scelta in base a considerazioni di ordine demografico, per evitare che la presenza di un numero troppo alto di abitanti palestinesi, con una elevatissima dinamica demografica, metta in causa anche a breve termine il carattere fondamentalmente ebraico dello Stato di Israele.

La scomparsa di Arafat, e l’avvio di un positivo rapporto con Abu Mazen, culminato con gli accordi di Sharm, hanno consentito che questo piano di ritiro, concepito come atto unilaterale, si configurasse come una essenziale confidence building measure, su cui fondare il rilancio della Road Map.

Sbaglia chi ritiene che quella di Sharon sia solo una operazione cosmetica e strumentale. Non si spacca il proprio partito, sfidando il voto contrario di un terzo dei deputati del Likud, non si forma un Governo con i Laburisti che si regge sul voto esterno di Yahad, il nuovo partito di Yossi Beilin, e l’astensione dei quattro deputati arabi, per fare una manovra tattica e di breve respiro.

Sharon sente su di sé la responsabilità della Storia, e vuole essere ricordato come il leader che ha dato la pace e ha assicurato un futuro al suo paese, anche a costo di scelte dolorose.

Naturalmente, è impensabile che dopo quattro anni di violenza e di sangue, si torni come se nulla fosse al punto in cui il negoziato era stato interrotto a Camp David e Taba, nel 2000 – 2001.

Diverse tappe dovranno essere percorse, per superare la barriera di odio, di diffidenza, di paura e di rancore che si è creata. E i due paesi dovranno affrontare la prova delle elezioni politiche generali, prima di poter arrivare al negoziato finale e  alla creazione di uno Stato palestinese che viva al fianco di Israele e in pace con esso.

Ma l’accordo di Sharm El Sheikh si basa su quelle consonanze strategiche, e su queste ripone la sua solidità. Abu Mazen e Sharon non sono i leader del futuro: l’uno e l’altro sono oramai anziani, e dietro di loro spingono i dirigenti della nuova generazione. Ma sono leader che hanno vissuto la storia e i suoi tormenti, e possono essere gli uomini della transizione verso la pace, anche se questo percorso, dobbiamo saperlo, sarà un percorso aspro e irto di contraddizioni.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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