L’Editoriale 

Il bivio di Sharon

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 19 luglio 2005

Il massacro di Londra ha dimostrato ancora una volta che il terrorismo non può essere sconfitto con mezzi puramente militari, anche se questi sono ovviamente necessari per la indispensabile opera di prevenzione e di repressione.
Ma questa lotta richiede anche una iniziativa politica forte, per dividere il fronte dei potenziali sostenitori, per restringere l’acqua entro cui nuotano i pesci del terrore, come stanno facendo anche in queste settimane gli USA in Irak, sviluppando i contatti con gli esponenti della comunità sunnita per ricondurla all’interno del processo rifondativo del nuovo Stato, in atto in quel paese.
Una iniziativa volta anche a risolvere conflitti e contenziosi oramai incancreniti, quale quello israelo–arabo–palestinese.

Non che a Bin Laden e agli altri capi di Al Qaeda importi molto dei palestinesi, ma la causa palestinese e la campagna antiebraica e antisionista (nell’ambito della più generale campagna contro i nuovi crociati occidentali) sono un ottimo vessillo per favorire la radicalizzazione delle masse arabe e destabilizzare i regimi arabi moderati. È il crollo di questi regimi il vero target del leader della nuova galassia del terrore, per giungere alla costruzione di un nuovo califfato islamico in tutta l’area.

Il ritiro da Gaza, il cui avvio è previsto per metà agosto, è venuto bruscamente a collocarsi in questo nuovo e più radicalizzato contesto, e ne ha risentito fortemente. Tutti gli oppositori al ritiro, di parte israeliana o palestinese o araba, si sono sentiti spinti ad accentuare il proprio protagonismo, d’altronde fortemente stimolato dallo stesso procedere della preparazione dei piani di evacuazione.

Non è un caso che, negli stessi giorni dell’attentato di Londra, a Baghdad sia stato ucciso l’ambasciatore Egiziano: un chiaro segnale a Moubarak, oltre per il suo crescente ruolo in Irak, per gli sforzi che l’Egitto sta facendo per aiutare e garantire il ritiro israeliano da Gaza, e la sicurezza delle frontiere verso il Sinai dopo la partenza delle truppe israeliane; nonché per assicurare il mantenimento della tregua da parte delle diverse fazioni armate palestinesi e prevenire lo scatenarsi di una guerra fratricida tra di esse una volta completata l’evacuazione della zona.

La stessa ripresa degli attacchi armati da parte dello Jiad Islamico, con l’attentato di Tel Aviv, testimonia una pericolosa ripresa di fiamma da parte di questo gruppo, sia per riconfermarsi protagonista della intifada armata che costringerebbe i sionisti a lasciare Gaza, sia per espandere la propria base di consenso in concorrenza con Hamas, la formazione islamica maggioritaria.
Hamas ha reagito riprendendo anch’essa i lanci di razzi sugli insediamenti israeliani e suscitando la decisa reazione israeliana, che è giunta fino all’uccisione di uno dei capi militari a Gaza di quella organizzazione islamica.
Gli scontri interpalestinesi in atto a Gaza sono d’altra parte anche l’annuncio di un possibile posizionamento, in vista della futura spartizione del potere e della forza in quell’area, dopo il ritiro israeliano.

Gli israeliani, dal canto loro, vogliono a tutti i costi evitare di trasformare la ritirata in una rotta sotto il fuoco nemico, e devono far fronte alle dure manifestazioni dei coloni e della destra, amplificate dalla ripresa delle azioni armate delle milizie palestinesi.
I coloni, nella loro parte più radicalizzata, appoggiati da esponenti del rabbinato più fondamentalista, hanno infatti moltiplicato le iniziative, dopo gli scontri con l’esercito e con i palestinesi delle scorse settimane, che peraltro avevano fatto drasticamente precipitare la loro popolarità nell’opinione pubblica israeliana, accentuandone l’isolamento. D’altra parte, oramai più della metà dei coloni ha accettato le proposte di indennizzo offerte dal Governo.

La reale portata del Piano Sharon sta diventando sempre più chiara per la stessa vastità delle reazioni che suscita. Non si tratta dunque di un trucco, di un piano cosmetico, ma di un intervento che scava nella carne viva della società, e non esita a mandare in frantumi il sogno del sionismo nazionalistico del Grande Israele, edificato nei confini dettati dalla Bibbia.
L’evacuazione di 25 insediamenti, da parte della destra, crea un precedente che non potrà più essere cancellato: nessun leader laburista potrà più essere accusato dalla destra, come capitò a Rabin, di essere un traditore, se vorrà ritirarsi da altri insediamenti in Cisgiordania.

Sharon ha portato avanti il suo piano come se lo sentisse imposto da una esigenza superiore, di Stato, senza esitare neanche di fronte alla spaccatura del suo stesso partito (un terzo dei deputati del Likud ha votato contro il nuovo governo di unità nazionale), o di fronte alla necessità di ricorrere anche ai voti della estrema sinistra di Yahad e all’astensione dei quattro deputati arabi pur di ottenere la fiducia della Knesset.

Questo non significa ignorare i limiti di questo piano. Concepito nel dicembre 2003 come un mero ripiegamento difensivo, a carattere unilaterale e non negoziato con i palestinesi, dato che all’epoca egli non riteneva che Arafat potesse più rappresentare un partner negoziale, il Piano punta al ritiro da tutte quelle terre palestinesi che, come affermò allora Sharon, anche nell’ipotesi dell’accordo di pace più favorevole per Israele, non potrebbero restare comunque sotto il controllo israeliano.
Un ridispiegamento effettuato attraverso l’evacuazione delle colonie al di là della nuova linea difensiva, il ritiro dell’esercito, e la costruzione della barriera difensiva.

In questa ottica, il ritiro da Gaza e da quattro colonie in Cisgiordania si annuncia come una prima fase, cui dovrebbe seguire una nuova fase riguardante le altre colonie della Cisgiordania al di là della linea di difesa: un tema già anticipato in alcune dichiarazioni pubbliche dal Vice – Premier israeliano, Ehud Olmert, ex sindaco di Gerusalemme, anche se poi la cosa è stata subito fatta cadere da Sharon, che preferisce non aggiungere nuove complicazioni.

Resta, naturalmente, aperta la questione delle altre terre, quelle che restano al di qua del Muro.
Dopo le rettifiche imposte dalla Corte Suprema di Israele, si tratta di circa il 7% della Cisgiordania. Un pegno per il futuro negoziato, in modo da non restare senza carte in mano, o l’individuazione di quelle aree, intorno alle colonie più popolose, vicino a Gerusalemme e lungo la linea verde, che gli israeliani tendono a tenere per sé, anche a costo di possibili scambi territoriali, come ipotizzato nella lettera di intenti inviata da Bush al Premier israeliano, nell’aprile 2004.
Entrambe le risposte paiono plausibili, e il confine tra di esse segna il possibile punto di approdo del negoziato. Un confine che non è definito, che verrà precisandosi in base agli sviluppi della situazione che verranno a determinarsi, sul piano politico e negoziale e sul terreno. Questo appare infatti uno degli elementi essenziali su cui si giocherà la ripresa del processo di pace ed il confronto tra le parti in conflitto, e la possibilità stessa della creazione di uno Stato palestinese al fianco di Israele.

L’altro aspetto dirimente è l’imprinting unilaterale assunto fin dall’inizio dal Piano. Già nel corso del 2004, in sostanza, tale unilateralità si era attenuata, con lo sviluppo di contatti indiretti attraverso l’Egitto. Ma dopo la scomparsa di Arafat, e l’elezione di Abu Mazen alla Presidenza dell’ANP, il rifiuto israeliano alla trattativa è gradualmente evaporato, anche se il negoziato non è ufficialmente iniziato. Nel febbraio 2004, il vertice di Sharm – El Sheik tra Sharon e Abu Mazen, alla presenza di Moubarak e Re Abdallah di Giordania, ha sancito la fine dell’incomunicabilità. La tregua militare voluta da Abu Mazen ed imposta alle diverse fazioni palestinesi ha tenuto, anche se con grande difficoltà, malgrado gli strappi anche di questi giorni che paiono rimetterla in causa. I contatti tra i responsabili della sicurezza delle due parti si sono infittiti, anche per assicurare un carattere pacifico al preannunciato ritiro israeliano.

Esistono quindi le condizioni perché il ritiro, da scelta israeliana unilaterale e di sicurezza, divenga un importante elemento di confidence building measure, elemento essenziale di innesco per la ripresa della Road Map, o di quello che ad essa subentrerà, con una versione probabilmente più concentrata e meno tortuosa, come suggerito dallo stesso Kissinger.

Ma di fatto proprio questa possibilità costituisce un rischio, oggi, per Sharon, che non vuole aggiungere altra carne al fuoco, per timore di bruciarsi. La ripresa del negoziato comporta la necessità di misurarsi con i temi spinosi del Final Status, i confini dello Stato palestinese, la questione delle colonie restanti dopo il ritiro, quella dei rifugiati, Gerusalemme. Proprio ciò che Sharon intende evitare a tutti i costi.

D’altro canto, se entro il 2008, come ripetutamente annunciato da George Bush, si dovrà arrivare ad uno Stato palestinese, queste questioni andranno affrontate per tempo, senza rinvii a tempo indeterminato. Ma è difficile che il Premier israeliano possa misurarsi con queste questioni, con il Likud in quello stato e con il tipo di maggioranza a tempo e variabile di cui dispone.
La probabilità maggiore è, quindi, che dopo il completamento del ritiro, in autunno, si vada a nuove elezioni, da cui possa uscire una leadership legittimata e con un chiaro mandato per affrontare la rinnovata sfida negoziale.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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