L’Editoriale 

La speranza viene da Ginevra

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 30 ottobre 2003

Siamo tra quelli che nei mesi scorsi avevano sperato, dopo la conclusione della guerra in Irak e la presentazione della Road Map da parte del Quartetto (USA, UE, Russia, ONU), che il processo di pace israelo-palestinese-arabo, impantanatosi nel sangue della seconda intifada e della repressione israeliana, potesse ripartire.

La realtà dura è tornata tuttavia ad imporsi. Il processo di militarizzazione delle due società pare oramai troppo forte. Ha prevalso una logica di puro mantenimento, che non ha futuro e serve solo a perpetuare il potere, mentre la crisi economica va facendosi sempre più devastante, per entrambe le parti.

Il tentativo di avviare una riforma dall’interno dell’Autorità Nazionale Palestinese, che si è incarnato nel governo Abu Mazen, ha dovuto cedere il campo, dopo un avvio fondato su premesse coraggiose e realistiche, di fronte al cocciuto rifiuto di Arafat di lasciare il controllo della sicurezza e delle finanze, alla pressione crescente delle bande armate irregolari e alla pochezza delle concessioni israeliane.

Il nuovo Premier a tempo, Abu Ala, ha avuto l’accortezza di evitare uno scontro frontale con Arafat e si è mosso con maggiore diplomazia; ma ha dovuto ben presto affrontare le stesse difficoltà e ha finito addirittura per dover fare a meno di un Ministro degli Interni. Abu Ala è stato uno dei protagonisti di Oslo, e non può certo essere definito un nemico della pace, ma le cause della sua fragilità sono le stesse di Abu Mazen e sono anzi accresciute dal fallimento del suo predecessore.

Si deve dire, tuttavia, che non si è trattato solo di incapacità palestinese: una parte di quei gruppi dirigenti, sia quelli di HAMAS e dello Jiad Islamico, sia una componente non secondaria interna allo stesso Fatah, pare perseguire coscientemente una linea che mira a provocare lo smantellamento della Autorità Nazionale Palestinese, come condizione per creare un terreno più favorevole allo sviluppo della rivoluzione nazionale palestinese, o di quella islamica.

Arafat, dal canto suo, sta fermo, blocca ogni tentativo di rinnovamento, intento a conservare un potere che si basa sempre più sul vuoto. E si rifiuta di scegliere tra la via dello scontro a oltranza e il rilancio del negoziato, che richiede il blocco della violenza.

Le contraddizioni palestinesi hanno facilitato la ricomposizione delle divisioni che si erano manifestate nella destra israeliana e Sharon ha potuto riprendere la via a lui più congeniale, di aumento strisciante degli insediamenti e di contenimento militare a breve dell’avversario.

Le sue aperture iniziali, la stima da questi espressa verso Abu Mazen, che pure avevano suscitato speranze e provocato reazioni forti nelle formazioni governative di estrema destra e nelle organizzazioni dei coloni, non si sono sostanziate in gesti coraggiosi, in grado di suscitare le speranze nel campo avverso e favorire la fuoriuscita dalla spirale del terrore.

Così, giorno per giorno, la logica della violenza ha ripreso il sopravvento, la logica dei martiri suicidi e degli attentati contro i civili israeliani, la logica degli omicidi mirati e anche dei bombardamenti contro edifici civili, effettuati per colpire uno o due terroristi e incuranti delle altre vittime civili che così venivano provocate.

La stessa erezione del muro divisorio tra Israele e i Territori palestinesi, che in sé non può essere rifiutata in via di principio (era una vecchia idea di Rabin e un cavallo di battaglia laburista alle passate elezioni), di fatto viene sviluppata includendo estese aree palestinesi e numerosi insediamenti, creando di fatto un nuovo confine più favorevole a Israele.

In questo degrado, sarebbe necessario un intervento internazionale più forte e incisivo. Le parti, da sole, non ce la fanno ad uscire da questa logica di guerra, bisogna spingerle in tale direzione con argomenti forti, quelli che gli USA possono usare verso Israele e l’UE verso i palestinesi.

Non solo di osservatori ci sarebbe bisogno, ma di una vera forza di interposizione, come in Kossovo, che rastrelli le armi ai gruppi armati irregolari palestinesi e impedisca reazioni israeliane illegittime e dirette contro la popolazione civile.

Ma al contrario l’intervento internazionale pare affievolirsi: gli Stati Uniti per tradizione, se i loro tentativi di rilanciare il processo di pace vanno a urtarsi con l’intransigenza delle parti, tendono a ritirarsi dall’area, a lasciare che i protagonisti si scannino un altro po’ da soli, sperando che maturino condizioni migliori.

D’altra parte, il dopoguerra irakeno, con il suo quotidiano corollario di morti e violenze, tende a divenire prioritario per Washington, mentre il conflitto israelo-palestinese un elemento sempre più residuale. A ciò si aggiunge la scadenza elettorale USA dell’autunno 2004, su cui l’attenzione di Bush tenderà a concentrarsi sempre di più.

L’Europa, dal canto suo, pare sorprendentemente assente. Attenuatosi l’impegno di Blair, essenziale per il varo della Road Map, la Presidenza italiana ha ricercato un canale forte con Israele e Sharon, sia per riequilibrare, anche giustamente, atteggiamenti eccessivamente filoarabi di cui l’Europa, in particolare per influenza francese, si è fatta portatrice; ma anche per esigenze di politica interna, legate all’ansia di legittimazione di Alleanza Nazionale.

Tutto questo ha finito comunque per attenuare la capacità di iniziativa strategica complessiva di questo semestre a presidenza italiana. La situazione è dunque oscura e drammatica.

L’unico raggio di luce viene da Ginevra, dove gli esponenti della Coalition for Peace, guidati dall’israeliano Yossi Beilin, tra i protagonisti degli accordi di Oslo, e dal palestinese Yasser Abed Rabbo, tra i più stretti consiglieri di Arafat, stanno per firmare in maniera simbolica una bozza di accordo definitivo di pace tra israeliani e palestinesi. A questo lavoro preparatorio il nostro Centro ha dato, negli anni passati, un contributo importante, soprattutto per il problema di Gerusalemme.

Siamo consapevoli che questa bozza di trattato non sarà fatta propria dal governo Sharon e che non rappresenta un accordo ufficiale. Ma esso dà una prospettiva, offre una dimostrazione concreta che la pace è possibile attraverso reciproche concessioni, crea un terreno realistico su cui costruire un rilancio delle forze di pace in Israele, finora prive di una proposta credibile e accettata dalla controparte, e riprendere la strada del dialogo e delle iniziative comuni tra forze di pace isreliane, palestinesi e arabe.

Il nostro Centro, insieme al Comune di Roma e ad altre prestigiose organizzazioni italiane, aveva presentato un anno fa la piattaforma della Coalition for Peace, con una grande manifestazione romana alla presenza di Beilin e Rabbo.

Lavoriamo ora per far tornare in Italia questi protagonisti della pace, per rilanciare intorno a loro un movimento positivo e incisivo contro la logica della morte e per affermare le ragioni della pace.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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