Home ≫ ANALISI

L’Analisi

Cristiani in Medio Oriente, la paura di scomparire

di Antonio Picasso

Data pubblicazione:  19 giugno 2012

Persecuzioni, esodi e quindi diaspora. Sono questi i rischi che, negli ultimi vent’anni, hanno gravato sulle comunità cristiane del Medio Oriente. Oggi, con la cosiddetta Primavera araba in corso, e sedati i relativi entusiasmi iniziali, i timori paiono ulteriormente accresciuti. Tra i copti in Egitto, i melchiti siriani, come pure presso le comunità del frastagliato panorama religioso libanese, si avverte la paura che persecuzioni, esodi e diaspore possano subire un’accelerazione nel tempo.

Negli ultimi decenni, la Terra Santa si è dimostrata sempre meno vivibile per i cristiani. Vuoi a causa di regimi autoritari e corrotti, poco inclini a proteggere le minoranze nell’amalgama mediorientale. Vuoi per la crescita delle derive estremiste confessionali – non solo nell’Islam, ma anche tra gli ebrei e nella stessa cristianità. Le Chiese, quelle che da due millenni arricchiscono il tessuto religioso della Mezzaluna fertile, hanno perso il loro antico ruolo di protagoniste politiche e sociali presso i singoli Paesi. Dal punto di vista religioso, politico e anche demografico. È infatti praticamente impossibile disporre di una stima attendibile sulla presenza cristiana nella regione. Il 2% sulla popolazione totale? Forse. Il problema è che nessuno effettivamente sa a quanto ammonti quest’ultima.

Il declino della Chiesa copta fa da primo esempio. È un fenomeno che perdura da tempo. Negli ultimi vent’anni di “regno” Mubarak non ha elargito più alcun incarico governativo a un qualsiasi rappresentante della Chiesa di San Marco. Già prima di piazza Tahrir, i cristiani vivevano ai margini della vita pubblica. Al Cairo come ad Alessandria. Ora cosa succederà? Con i Fratelli musulmani, le autorità ecclesiastiche hanno instaurato un dialogo. Ma i fedeli della strada non credono che il partito islamista, che sta prendendo il potere nel Paese, sia sinceramente propenso al confronto religioso. Il ricordo delle stragi avvenute al Cairo e a Menia tra il 2010 e il 2011 è ancora vivo nella memoria dei più. Gli spargimenti di sangue sono stati attribuiti alle frange più violente della Fratellanza, o a gruppi salafiti, quindi vicini alle prime. Accuse, a onore del vero, mai confermate. Tuttavia, il sospetto è sufficiente per alimentare la preoccupazione per un potenziale scontro confessionale sulle sponde del Nilo. Negli ultimi mesi inoltre, i copti si sono trovati orfani della propria guida spirituale. Il loro pontefice, papa Shenouda III, è morto all’inizio di marzo e il suo successore non è stato ancora scelto. A chiunque sarà spetterà l’incarico di accompagnare la Chiesa di San Marco nell’Egitto post Mubarak, integrandola in una democrazia in cui inevitabilmente il peso politico dei partiti islamisti sarà maggiore. I copti in futuro dovranno convivere con i Fratelli musulmani e collaborare per l’evoluzione del Paese. Sarà possibile? I pessimisti temono che si realizzi il contrario di tutto questo. D’altra parte una rivoluzione, se così si può chiamare quella in corso in Medio Oriente, non può dirsi conclusa ad appena un anno e mezzo dal suo scoppio. Chi assicura che, caduto Mubarak, non si apra davvero una fase di costruzione democratica – e quindi di tolleranza – in Egitto? Chi è disposto a scommettere che il Paese sarà davvero la culla dell’Islam esclusivista e contrario alla sopravvivenza dei copti in una nazione la cui identità anch’essi hanno partecipato a plasmare?
In realtà, il timore non aleggia solo al Cairo o ad Alessandria. La paura di scomparire, scappare e abbandonare la propria terra, è avvertita anche dai maroniti, dagli armeni e dai melchiti in Libano. Questi ultimi tremano però anche in Siria. Perché la caduta di Bashar el-Assad a Damasco non potrà che avere ripercussioni oltrefrontiera. Come pure farebbe saltare quel precario equilibro confessionale e politico che permette alle minoranze di avere una voce importante sia a Beirut sia a Damasco. Detto questo, va anche ricordato che spartire il contesto siro-libanese tra “buoni” e “cattivi” è quanto mai approssimativo. È vero, in Libano da un lato c’è Hezbollah che tifa per il regime. Dall’altro, il blocco sunnita spera in una nuova Siria. Nel mezzo però ci sono i cristiani, le cui Chiese e soprattutto i partiti si trovano scissi in correnti in lotta reciproca. La spaccatura maronita, a questo proposito, è esemplare. Alcune fazioni si sono avvicinate al Partito di Dio e quindi alla Siria, sicure che lo status quo sia la sola strada per sopravvivere. Altre risultano filo-sunnite e si augurano che la fine di Assad provochi anche il declino del blocco sciita a Beirut. Chi tra le due è più vittima delle illusioni?

In realtà la posizione più chiara sembra essere quella di armeni e melchiti, le cui comunità sono ben insediate proprio in Siria. Come ogni minoranza che si rispetti, anche le loro sono guardinghe nell’accogliere a braccia aperte questa lunghissima primavera. Tanto più che in Siria la guerra civile ha ben poco dei tratti primaverili che la stampa occidentale si ostina a descrivere. La conservazione degli equilibri ha sempre fatto da leitmotiv alla millenaria questione mediorientale. Anche questa volta, chi ne professa il mantenimento è convinto che la trasformazione non gioverebbe ai soggetti minoritari – cristiani, alawiti, drusi e sciiti. Si teme di dover piangere altre persecuzioni, come avveniva in Turchia ormai un secolo fa, oppure in Iraq non molto addietro.

Si vive nell’attesa e nella speranza che le previsioni più pessimistiche vengano smentite dalla realtà, vale a dire che il vento di primavera nel mondo arabo sia effettivamente propizio per tutti. Non solo per la maggioranza musulmana, ma anche per quei cristiani che sono parte integrante della storia del Medio Oriente. Non solo per ragioni religiose. Piaccia o no, questa è la Terra Santa, vale a dire il nucleo geografico e storico del Cristianesimo. Dalle crociate ai movimenti di indipendenza palestinese, passando per la guerra civile in Libano, l’elemento confessionale costituisce una questione fondamentale per la comprensione degli scenari attuali. Lo sanno bene anche a Roma. Ne è consapevole papa Benedetto XVI, che a settembre sarà proprio in Libano per un viaggio pastorale.

NOTE SULL'AUTORE 

Antonio Picasso

Giornalista attento alle vicende mediorientali e al mondo islamico, scrive per La Stampa ed è analista per il Centro di Documentazione e Ricerca Luigi Einaudi. In passato ha collaborato con «Il Riformista», «Liberal», «Limes», «East» e numerose altre testate specializzate in politica internazionale. Nel 2010 ha pubblicato "Il Medio Oriente cristiano" (Cooper, Roma).

Leggi tutte le ANALISI