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L’Analisi

Lo stupore di Abu Mazen

di Ugo Tramballi

Data pubblicazione: 19 febbraio 2009

Una volta di più i palestinesi hanno guardato attoniti un risultato elettorale israeliano. Era già accaduto che votando a destra gli israeliani fermassero una trattativa di pace promettente. Anche adesso ce n’era una: sia pure in ritardo di sette anni, ad Annapolis George Bush aveva ripreso ciò che era stato lasciato in sospeso a Oslo e poi a Camp David, e avviato una trattativa seria. Tutti i problemi erano stati coraggiosamente rimessi sul tavolo del negoziato: spartizione di Gerusalemme, diritto al ritorno dei profughi palestinesi, colonie ebraiche, frontiere. E tutti avevano ricominciato a parlare.

Mai come ora, tuttavia, Israele aveva votato così a destra. Dare il consenso ad Avigdor Lieberman, allo Shas, ai religiosi e ai nazionalisti significa condividere il loro progetto: no a uno Stato palestinese e rifiuto ai limiti del razzismo degli arabi. Ma anche nello stesso Likud che dovrebbe essere di centro-destra, una buona metà dei deputati eletti condivide le tesi più estremiste di Lieberman e degli ultra-nazionalisti. Il rifiuto di una soluzione del conflitto che preveda due Stati, uno ebraico e uno palestinese, è netto e maggioritario.

Mai era stato così evidente, tuttavia non è un fatto del tutto nuovo. Per l’opinione pubblica mondiale, i trattati, le risoluzioni e il diritto internazionale, la Cisgiordania è un “territorio occupato”. Ma è tale solo per il 32% degli israeliani: secondo un’indagine che lo Steinmetz Peace Index ha fatto molto tempo prima delle elezioni, per il 55% é un “territorio liberato”.  I razzi di Hamas e la guerra di gennaio a Gaza hanno solo aumentato e solidificato fra gli israeliani la convinzione che i palestinesi non siano partner di un negoziato ma nemici da combattere; che attorno a Israele non ci siano arabi che vogliono creare uno Stato palestinese ma arabi che vogliono distruggere quello ebraico.

I palestinesi guardano attoniti ai risultati elettorali israeliani: constatano quanto gli avversari si allontanino una volta di più da una volontà di pace ma non si chiedono mai quali siano le loro responsabilità. Il comportamento degli uni determina sempre quello degli altri: e fra due popoli sovrapposti in un lembo di terra così piccolo, come sono l’israeliano e il palestinese, il comportamento degli uni scatena negli altri paranoie e schizofrenie. Il comportamento palestinese, la mancanza di realismo e spessore politico, ha sempre avuto conseguenze devastanti sull’atteggiamento israeliano. All’inizio del 2002 Arafat avrebbe potuto frenare la seconda Intifada, aiutando il laburista Ehud Barak a vincere le elezioni. Non lo fece, convinto del tanto peggio tanto meglio, e trionfò Ariel Sharon. Due mesi fa anche Hamas sapeva che lanciando centinaia di razzi avrebbe provocato la reazione militare israeliana; e che una guerra sotto elezioni avrebbe alla fine stimolato le tendenze militaristiche e conservatrici dell’opinione pubblica. Ma spinta dall’ala in esilio a Damasco e dalle pressioni iraniane, lo ha fatto.

A questo punto, però, è di relativa importanza chiedersi se del risultato elettorale israeliano si avvantaggerà di più Hamas che ha sempre preferito il confronto militare o Fatah che ha fatto una scelta politica. La questione è superata da quello che potrebbe accadere in Israele. Se davvero a Gerusalemme nascerà un Governo di destra che rifiuta di congelare gli insediamenti, di ritirarsi dai territori occupati e decide di negare il diritto palestinese a uno Stato, si crea una simmetria, una opportunità nuova per la diplomazia palestinese.

Perché rifiutiamo di trattare con Hamas e di riconoscergli un ruolo politico? Perché non vuole ammettere l’esistenza di Israele e si ostina a non sottoscrivere gli accordi di pace firmati dall’Olp con lo Stato ebraico. Come dovrebbero comportarsi gli Stati Uniti e la diplomazia europea con un Governo israeliano che negasse il diritto palestinese a uno Stato: cioè la soluzione del conflitto ritenuta la sola possibile dall’intera comunità internazionale?  Se l’idea di una Grande Israele dal Mediterraneo al Giordano è una idea razzista, non dovremmo come minimo boicottare economicamente uno Stato che la adottasse come programma politico?

Disperato più di ogni altro palestinese per il risultato elettorale israeliano, Abu Mazen ha già sollevato questi dubbi. Nel suo viaggio in Europa nei giorni immediatamente successivi al voto, li ha già posti alla considerazione di francesi, inglesi, tedeschi e italiani. Una risposta non c’è stata perché, fino a prova contraria, ognuno rifiuta la sola idea che un Governo israeliano si possa trasformare in quello che teme Abu Mazen. Ma presto la preoccupazione potrebbe trasformarsi in una nuova e imbarazzante realtà mediorientale.

NOTE SULL'AUTORE 

Ugo Tramballi

Inviato speciale de Il Sole 24 Ore e responsabile del blog http://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/ 

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