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L’Analisi

Gioco di scacchi aspettando Obama

di Antonio Ferrari

Data pubblicazione: 19 febbraio 2009

L’occhio, spietato giudice dell’immediato, coglie un’istantanea confusa, complicatissima, sostanzialmente illogica. Mentre Israele cerca di assimilare la volontà che gli elettori hanno manifestato con il voto del 10 febbraio, nell’intera regione attori, comprimari e comparse sono impegnati in un complesso moto di riposizionamento in vista del vero debutto, sullo scenario del Medio Oriente, della nuova Amministrazione americana di Barack Obama. Un’Amministrazione che ha già inviato segnali importanti, distanziandosi sensibilmente dalla sterile ed empirica strategia dell’ex presidente George W. Bush e dei suoi collaboratori.

La volontà di Washington di impegnarsi a risolvere le varie crisi, vedendole come un assieme e non come una sommatoria di singoli problemi, lungi dal creare illusorie aspettative ha comunque costretto molti paesi a ripensare agli errori degli ultimi anni. Direi che tra i passi più interessanti vanno segnalati quelli sauditi, cioè di un regno che pur essendo da sempre alleato degli Usa, da qualche tempo si ritrova al centro di una ragnatela di proposte politiche tendenti ad imprimere una svolta all’insieme dei problemi. Non è soltanto il piano, coraggiosamente presentato nel 2002 a Beirut, che propone il riconoscimento di Israele e la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con lo stato ebraico da parte di tutti i membri della Lega araba, in cambio del ritiro da tutti i territori occupati, tornando quindi alle frontiere del 1967. Piano reiterato più volte, in numerosi summit. Quel che colpisce è l’attivismo del re saudita Abdullah, che proprio in questi giorni ha inviato un influente prìncipe a Damasco con una lettera per il presidente Bashar el Assad. Passo importantissimo, che rompe una lunga stagione di gelo, cominciata quattro anni fa con la strage di San Valentino, cioè con l’assassinio dell’ex premier libanese Rafic Hariri, che pur essendo nato a Sidone era cresciuto e diventato un potente e ricco leader proprio alla corte di Riad.

Il disgelo tra l’Arabia e la Siria può essere una tappa fondamentale, in nome del realismo, per cancellare le ombre del passato (Damasco è sempre sospettata di aver avuto un ruolo nella strage di San Valentino) e guardare avanti, cercando di accompagnare e favorire quei segnali di disponibilità giunti dal regime di Assad. Il quale, dopo l’invito al vertice Euromediterraneo di Parigi, nello scorso luglio, e il personale rapporto che è riuscito a tessere con Nicolas Sarkozy, non vede l’ora di uscire definitivamente dal cono d’ombra, e di riproporsi come collaborativo attore delle nuove iniziative di pace. Magari prendendo le distanze dall’attuale vertice di Teheran, storica alleata di Damasco. Calcolo scaltro, soprattutto in vista delle elezioni iraniane, il cui risultato potrebbe modificare l’atteggiamento degli ayatollah. Infatti, al posto del duro e rozzo Mahmoud Ahmadinejad potrebbe essere eletto, cioè rieletto, presidente il suo sfidante principale: quel Mohammad Khatami, sul quale nel passato si erano appuntate le speranze dei progressisti iraniani e quelle di mezzo mondo.

Non solo. Il riavvicinamento tra Siria e Turchia, ormai trasformato in un solido partenariato, potrebbe diventare una condizione essenziale per un’azione più incisiva negli equilibri mediorientali. Non perché il premier turco Recep Tayyip Erdogan si sia conquistato meriti, tra gli estremisti, per le dure dichiarazioni contro Israele durante la guerra di Gaza, e neppure per la sceneggiata, davvero sconveniente, di Davos, con l’attacco a testa bassa dello stesso Erdogan al presidente Shimon Peres. Queste “scivolate” non sono strategiche ma tattiche da cortile, visto che la Turchia sta per affrontare delicate elezioni amministrative, con il partito di governo (l’islamico meoderato Akp) in perdita di consensi, quindi bisognoso di segnali forti per tentare il recupero. Senza dimenticare che nessuno ad Ankara può mettere in discussione l’alleanza strategica con lo stato ebraico, fortemente voluta dai militari, che sono pur sempre i custodi della costituzione voluta da Kemal Ataturk.

Semmai è rilevante il ruolo che la Turchia ha avuto per facilitare il colloquio indiretto tra Israele e la Siria, in vista della ripresa di negoziati diretti fra le due parti. Negoziati temporaneamente sepolti dalla guerra di Gaza, ma con un possibile prossimo rilancio, favorito dagli Usa di Obama. Ankara è assai vicina all’Egitto, che è tornato grande protagonista negli ultimi tempi, per aver trovato punti di mediazione tra le varie componenti palestinesi (soprattutto Hamas) e Israele. Problema lontano dall’essere risolto, ma si è sulla buona strada. E oggi, ancor più di ieri, risaltano l’acume e l’intelligenza politica del presidente Hosni Mubarak. Il quale, pur sapendo quanto sia difficile decifrare i segnali di fumo di Hamas, continua pazientemente a non perdersi d’animo. Che cos’è Hamas? Chi comanda? Chi decide? Rebus che paiono irrisolvibili, perché Hamas è diviso fra chi vive a Gaza e chi sta all’estero (Damasco, Teheran), e poi vi sono lacerazioni anche nella Striscia tra l’ala politica e quella militare. Tenere assieme forze che si affidano alla generosità saudita (cioè ai filo-occidentali) per la ricostruzione e l’aiuto alle famiglie da una parte, e che accettano di rispondere all’interessato sostegno dell’Iran estremista di Ahmadinejad dall’altra, sembra quasi impossibile.

Ancora una volta affiora l’influenza economica su tutte le crisi della regione. Le difficoltà finanziarie che si sono abbattute sull’intero pianeta hanno pesanti ricadute nel Medio Oriente, ed è necessario pilotarle: per evitare che i problemi congiunturali del mondo accentuino la spinta estremista, e per favorire un approccio più realista e fruttuoso. Pensate che la crisi ha brutalmente aggredito persino il regno del bengodi, l’emirato di Dubai, che profuma di sfacciato benessere. Nel parcheggio dell’aeroporto internazionale, vi sono 3000 auto di lusso abbandonate in fretta dagli illusi stranieri attratti dalla ricchezza facile, che se ne sono andati per evitare le conseguenze dei tanti affari andati in fumo.

Se arretra l’economia, bisogna compensarla con un rilancio della politica. Tra i palestinesi è necessario trovare punti d’intesa anche con la parte dialogante di Hamas, cercando di distanziarla dagli estremisti. Ignorare il movimento islamista palestinese è un grave errore, come ripete l’ex presidente americano Jimmy Carter. Ma occorrono la consapevolezza e il contributo di tutti. E’ questo il mondo mediorientale che si specchia nelle contraddizioni israeliane del dopo voto. E che chiama i suoi leader ad affrontare nuove e più importanti, anzi terribili responsabilità.

NOTE SULL'AUTORE 

Antonio Ferrari

Giornalista e scrittore, nato a Modena nel 1946. Ha cominciato come cronista al «Secolo XIX» di Genova, e dal 1973 è al «Corriere della Sera»: inviato speciale ed editorialista. Dopo aver seguito gli anni del terrorismo italiano, con le trame nere e rosse, è passato all'estero. Prima in Europa e nei Paesi dell'Est comunista, per approdare nei Balcani, nel Medio Oriente e in Nord Africa. Ha seguito quasi tutte le crisi di queste regioni, le guerre, i tentativi di pacificarle. Ha intervistato, nel corso degli anni, quasi tutti i leader di un'area estesa ed estremamente variegata. È membro del Comitato scientifico del CIPMO (Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente) e di Gariwo (La foresta dei Giusti).

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