Data pubblicazione: 2 luglio 2009
Non era previsto che potesse accadere: le elezioni erano state tranquille, le consultazioni politiche fra i leaders costruttive, quasi amichevoli. Hariri premier aveva avuto il gradimento di tutti i fronti e di ogni confessione. Eppure d’improvviso, la domenica pomeriggio quando i libanesi cristiani, musulmani sciiti e sunniti vanno tutti al mare, è scoppiato l’inferno. Due ore di sparatorie e lanci di razzi anticarro come ai vecchi tempi della guerra civile. Non è chiaro chi abbia incominciato, quale sia stata la scintilla. Ma fra tutte le comunità e i loro uomini armati, sunniti del partito di Sa’ad Hariri e sciiti di quello Amal di Nabih Berri, erano quelli ad avere meno ragioni per prendersi a fucilate nei quartieri musulmani di Beirut Ovest. Berri aveva appena ottenuto il sì di Hariri per il suo quinto mandato consecutivo da presidente del Parlamento; e si era sdebitato garantendo al Presidente Michel Suleiman il si di Hamal alla nomina di Hariri premier incaricato: unico partito del fronte delle opposizioni dell’“8 Marzo”, a fare un gesto così. Hezbollah si era limitato a non proporre alcun nome in alternativa e a tacere. Non doveva accadere dunque che sunniti e Amal si sparassero addosso a Beirut. Non doveva anche perché fino all’ultima domenica di giugno l’atmosfera post-elettorale era incredibilmente rilassata. Hariri aveva incontrato Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah, aveva stretto la mano a Michel Aoun, ex generale dalle tentazioni bonapartiste, cristiano ma alleato di Hezbollah. Dopo mesi e mesi d’insulti si erano parlati perfino il druso Walid Jumblatt e Nasrallah. Per ritrovare un clima politico così, bisognava tornare all’inizio degli anni Novanta: quando finì la guerra civile, il Kuwait fu liberato, il processo di pace fra arabi e israeliani rimesso in moto.
Non doveva succedere ma è accaduto. E le cause di uno scontro breve ma così pericolosamente brutale accompagneranno tutto il processo politico post-elettorale; saranno l’incubo e il monito per ogni leader politico e di ogni capo tribù in ogni passo del dialogo per formare un Governo. E anche dopo, quando un esecutivo ci sarà e i rapporti di forza saranno apparentemente chiariti, come un peccato originale quelle cause accompagneranno ogni giorno della vita del Libano minacciandone un’altra guerra civile.
Le cause sono principalmente due: una psicologica e una geopolitica. Per quanto i capi si parlino e un compromesso venga trovato sul prossimo governo, i libanesi vivono di ricordi e di vendette. L’ultima domenica di giugno l’atmosfera politica era positiva. Ma agli sciiti non era andata giù la sconfitta elettorale; e ai sunniti non era passato il ricordo dell’umiliazione del maggio 2008, quando gli sciiti calarono nei loro quartieri imponendo la forza delle loro armi. Il ricordo dei torti e il sottile desiderio della vendetta, accompagnerà sempre i libanesi nel loro tentativo di tenere insieme, in un solo piccolo Paese, 18 confessioni.
L’altra causa che tiene sempre vivo il fuoco sotto le ceneri libanesi, è il mondo attorno. Le elezioni del 7 giugno sono state un sorprendente atto di democrazia. Alta affluenza, un vincitore netto (il fronte moderato del “14 Marzo”, 71 seggi su 128), uno sconfitto che ha onestamente ammesso il risultato (il fronte dell’“8 Marzo” più vicino a Siria e Iran), un dialogo posto-elettorale costruttivo. Ma attorno al Libano i problemi della regione sono sempre gli stessi. Un governo israeliano di estrema destra nazionalista; Gaza non ricostruita e in assenza un accordo perché la guerra non possa riprendere; la Siria ancora incerta se riaprire verso Occidente, Ahmadinejad a Tehran. Il Libano è sempre stato vittima di tutto quello che vi accadeva attorno, fuori dai suoi confini. Praticamente i libanesi non hanno una politica interna separata da quella estera: la prima è sempre frutto della seconda.
Proprio per questo, anche dimenticando l’inaspettata esplosione di violenza dell’ultima domenica di giugno, i problemi del Libano di oggi sono gli stessi che lo destabilizzavano prima delle elezioni. È stato un bel segno di moderazione che gli elettori abbiano scelto il “14 Marzo”. Ma ora Hariri si troverà a dover risolvere lo stesso problema che l’anno scorso aveva il governo di Fuad Siniora: se, aprendo a un governo di unità nazionale, debba concedere quel terzo di portafogli ministeriali che permetterebbe all’opposizione di esercitare il diritto di veto su ogni atto dell’esecutivo. Il “14 Marzo” non vuole offrirlo, l’“8 Marzo” lo pretende. Come prima.
Né è affatto risolto il problema della milizia privata di Hezbollah, meglio armata e più addestrata dello stesso Esercito nazionale. Il movimento fondamentalista sciita non ha esattamente perso le elezioni del 7 giugno: ha candidato pochi dei suoi, lasciando andare avanti Amal e i cristiani di Michel Aoun. Questi ultimi hanno perso davvero. Hezbollah ha una sua agenda che non è libanese ma regionale. Per questo non consentirà a nessuna maggioranza di riaprire la trattativa perché si smantelli della sua milizia.
Questi erano i problemi prima, questi lo sono ancora. In Libano i rapporti di forza non vengono definiti da un’elezione e dalla divisione dei seggi di un Parlamento. Sono determinati da quante armi e quanti uomini hanno i partiti in strada, quanti soldi corrono, la forza o la debolezza degli alleati stranieri dei due principali schieramenti: degli alleati nella regione (sauditi, siriani, egiziani) e di quelli di un’area più allargata dagli Stati Uniti, all’Europa, all’Iran.
NOTE SULL'AUTORE
Ugo Tramballi
Inviato speciale de Il Sole 24 Ore e responsabile del blog http://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/
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