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L’Analisi

Chi comanda in Iran

di Alberto Negri

Data pubblicazione: 2 luglio 2009

Marg bar diktator, marg bar diktator“. Così gridavano in faccia ai pasdaran migliaia di manifestanti in piazza Fatemi e lungo Vali Asr, l’arteria vitale di Teheran. “Morte al dittatore”, era l’urlo inferocito verso Mahmoud Ahmadinejad e le truppe speciali, che contro l’onda verde di Mir-Hossein Moussavi usavano manganelli e lacrimogeni, tra i cassonetti della spazzatura in fiamme per inseguire migliaia di ragazzi con davanti al volto i fazzoletti, tutti dello stesso colore, il verde dell’opposizione. «Morte al dittatore», era anche lo slogan dei milioni di iraniani che trent’anni fa si riversarono nelle strade della capitale fino a costringere all’esilio lo shah Reza Pahlavi, imperatore di un Iran che aveva il più grande esercito del Medio Oriente.

Ahmadinejad e la Guida Suprema Alì Khamnei hanno tenuto a bada la piazza con vecchi e nuovi metodi: fucile e bastone nelle strade, un’occhiuta censura elettronica per telefoni, Internet, e-mail e sms. E dopo la repressione visibile è scatta quella “invisibile”: nelle carceri, con le torture, le impiccagioni coatte, gli arresti domiciliari, il ritiro dei passaporti, la sospensione degli studenti e dei professori che non partecipano agli esami universitari.

L’Hotel Evin, il supercarcere di Teheran costruito dallo Shah nel 1971, è l’unica fabbrica di Teheran che non ha mai smesso di funzionare. Da Evin sono passati tutti, prima gli oppositori della monarchia, poi quelli dell’Imam Khomeini, con drammatici scambi di ruolo tra carcerieri e prigionieri. Ha ospitato personaggi eccellenti della corte imperiale ma anche ayatollah famosi, come Taleghani e Montazeri, il delfino di Khomeini.

Ecco come funzionano le prigioni di Teheran nel racconto di un oppositore: “I prigionieri ritenuti più interessanti vengono legati e incappucciati e trasferiti al Sepah 59, un carcere dei pasdaran di cui si conosce soltanto il nome in codice. Lì puoi restare bendato per settimane mentre ascolti nelle altre stanze le voci e le grida di quelli che vengono interrogati e torturati. A Evin invece si sta in trenta in celle di 24 metri quadrati e si dorme per terra. Poi c’è la separazione: al braccio 269 vanno i comuni, al 240 ci sono le celle di isolamento e punizione, al 209 una sezione dei servizi segreti dove i carcerati devono tenere sempre gli occhi bendati, al 325 la sezione speciale per i religiosi, i mullah, e una per intellettuali e giornalisti” .

Quelli che hanno partecipato alla manifestazioni di protesta dopo il voto per le presidenziali del 12 giugno avranno un trattamento speciale non solo in carcere ma anche dal punto di vista giudiziario: verranno processati da una corte ad hoc di cui fanno parte, tra gli altri, un ex capo dei servizi e l’ex ministro degli Interni l’hojatoleslam Mustafa Pour Mohammadi, esperto di interrogatori, con la supervisione di un altro religioso Gholam Hussein Mohsen Ejei, ex capo sei servizi della Vevak e ora ministro dell’informazione, cioè dell’intelligence. L’aspetto interessante è che i giudici sono anche quelli che in alcuni casi conducono in carcere gli interrogatori. Sarà una repressione dura e soprattutto estesa, approfondita. Certo non la prima e forse non la più sanguinosa sperimentata in un Paese che ha visto di tutto: durante la “rivoluzione culturale”, quando nei primi anni ’80 rimasero chiuse le università per due anni e mezzo, fu condotta una brutale campagna di rastrellamento degli studenti laici e della sinistra marxista. Ogni giorno sui quotidiani del pomeriggio comparivano le lugubri liste dei condannati a morte: alla fine del 1980 si contarono circa seimila esecuzioni sommarie. L’ondata delle condanne a morte non si esaurì: nel 1988 vennero giustiziati tra i quattro e i cinquemila militanti dei Mujaheddin del Popolo che avevano tentato un colpo di mano contro la repubblica islamica con l’aiuto di Saddam Hussein.

Quando il presidente Ahmadinejad qualche tempo fa ha cominciato a parlare della necessità di una seconda rivoluzione culturale, avviando nuove purghe tra i professori d’università e gli studenti contestatori, ha risollevato le memorie di questi tempi. Adesso ha una buona occasione per mettere in atto il progetto di rievocare, anche nella repressione, i primi anni rivoluzionari.

Ma la resa dei conti forse più interessante per comprendere che tipo di direzione prenderanno gli eventi in Iran è quella che si svolge ai vertici. La politica in Iran si divide tra “khodi”, quelli che stanno dentro, e “kheir khodi”, quelli che stanno fuori dal cerchio: insider & outsider, questa è la vera linea di demarcazione tra chi può decidere – o criticare duramente chi decide – e tutti gli altri. Il popolo, le masse, sono outsider: possono essere manovrate ma non devono decidere nulla. A Qom, il Vaticano degli sciiti, per esempio, sono tutti insider, anche se magari tra loro i mullah si sbranano. In queste settimane calde si è parlato con insistenza di una manovra di Hashemi Rafsanjani, presidente dell’Assemblea degli Esperti, organo che elegge e destituisce la Guida Suprema, per estromettere la Guida Suprema Alì Khamenei. Le sue ultime dichiarazioni sembrano smentire questa ipotesi, che per altro non teneva conto degli attuali rapporti di forza. Con Ahmadinejad, in sella dal 2005, c’è stata l’ascesa al governo dell’ala militare dei pasdaran, di una generazione di cinquantenni che non ha nessuna intenzione di cedere il potere conquistato.

Gli intrecci all’interno della casta degli ayatollah danno poi al panorama della repubblica islamica un’aria da foto di famiglia, essenziale per capire che il nucleo rivoluzionario dei turbanti e dei loro alleati ha fatto e disfatto per tre decenni la storia dell’Iran dilaniandosi per l’eredità del patriarca, l’Imam Khomeini, ma evitando accuratamente di abbattere i pilastri del sistema. E Ahmadinejad, che punta a una svolta autocratica, deve pur concedere qualche cosa a una struttura di potere che lo legittima anche di fronte ai suoi sostenitori. Il padre spirituale di Ahmadinejad, l’ayatollah Mesbah-Yazdi, che vorrebbe cancellare le elezioni dall’agenda politica, è costretto anche lui a compromessi: è più noto agli analisti politici che al pubblico iraniano, tanto è vero che è stato bocciato alle elezioni per entrare all’Assemblea degli Esperti.

A Rafsanjani adesso tocca deglutire l’amaro calice di una seconda sconfitta, dopo quella delle presidenziali del 2005, e far leva su Khamenei per tirare fuori dal carcere centinaia di supporter suoi e di Moussavi ingabbiati nell’Hotel Evin. Venti di restaurazione soffiano su Teheran e nelle madrase di Qom. Ma il popolo iraniano, i suoi giovani e le sue donne coraggiose, potrebbero non gradire di restare ancora fuori dalla porta, tra gli outsider

Ma quale sarà l’Iran del secondo governo Ahmadinejad, con il quale si dovrà confrontare l’Occidente? Nei giorni della repressione della rivolta di Teheran ho provato a chiederlo a Hussein Shariatmadari, direttore di “Keyhan”, giornale ufficiale della Guida Suprema. Quando Ahmadinejad diventò sindaco di Teheran, Shariatmadari, con un’aria per nulla compiacente, profetizzò: “Non ci fermeremo qui”. Ascoltato consigliere di Khamenei, era già alla testa del giornale: ricorda benissimo l’intervista che gli feci nel 2004 dove preannunciava, un anno prima, l’ascesa alla presidenza di Ahmadinejad. Protagonista dell’opposizione contro lo Shah, condannato all’ergastolo, ferito sul fronte contro l’Iraq, Shariatmadari è un ponte tra la destra religiosa conservatrice e il nuovo corso, una sorta di primo ministro “ombra” di Khamenei: esprime la linea ufficiale della Guida e sa cosa farà domani il governo. E’ così bene informato che nel 2005 fu l’unico ad anticipare con un titolo a nove colonne che Ahmadinejad aveva vinto il ballottaggio delle presidenziali con Rafsanjani: le urne si erano chiuse da poche ore e anche allora si parlò di brogli elettorali.

“All’interno – dice Shariatmadari – verrà lanciata una nuova campagna per la giustizia sociale e la distribuzione della ricchezza petrolifera, un’altra contro la corruzione e una terza per diffondere il pensiero e la cultura islamica. In politica estera non saremo noi a creare tensioni ma se verranno superate le nostre linee rosse risponderemo duramente. Non ci sarà spazio per chi, come la Gran Bretagna, ci condanna politicamente e pretende di avere buoni rapporti economici. Come pure non tratteremo sul nucleare. C’è un nuovo ordine mondiale: non dobbiamo dare spiegazioni a nessuno, è iniziata l’era del negoziato critico, in cui saremo noi a chiedere a voi il perché di certi comportamenti”.

Non fate quindi domande, sostiene il regime, su come e dove sono finiti i ragazzi dell’onda verde: il pesante cancello d’acciaio dipinto d’azzurro dell’Hotel Evin si è chiuso dietro le loro spalle. E speriamo per loro che la memoria dell’Occidente non si esaurisca con l’affievolirsi della risacca elettronica dei blog e dei twitter.

 

*Alberto Negri è inviato speciale de Il Sole 24 Ore. È autore di diversi libri, come “Il turbante e la corona. Iran, trent’anni dopo”, Tropea, 2009.

NOTE SULL'AUTORE 

Alberto Negri

Alberto Negri è stato inviato speciale per "Il Sole 24 Ore" per il Medio Oriente, l'Africa, l'Asia centrale e i Balcani dal 1987 al 2017. Come corrispondente speciale, ha coperto la maggior parte dei principali eventi politici e di guerra degli ultimi 30 anni, dalla guerra Iran-Iraq all'Afghanistan (1994-2001-2015), dalle guerre dei Balcani a Sarajevo, Kosovo, Croazia, Serbia, a Baghdad 2003, dall'Algeria 1991 alla Siria 2011-2016, dalla Tunisia 2011 al Cairo e Tripoli 2015, la Turchia per 25 anni. In Africa ha coperto il Sudafrica, il Mozambico, l'Eritrea, l'Etiopia, la Somalia, il Kenya, il Senegal, il Mali, la Mauritania, il Marocco. Nel 2007 ha vinto un premio nazionale come reporter di guerra, nel 2009 ha vinto il premio giornalistico internazionale "Maria Grazia Cutuli", nel 2015 il premio "Colombe per la pace". È autore di saggi e libri. Il suo ultimo libro "Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente" è stato premiato con il Premio Capalbio.

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