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L’Analisi

Gaza: speranze e trappole per il processo di pace

di Eric Salerno

Data pubblicazione: 4 luglio 2005

Dobbiamo ritirarci da Gaza per costruire Israele>. La frase è stata pronunciata appena pochi giorni fa da Ariel Sharon e rispecchia pienamente la nuova strategia del leader israeliano. L’Israele a cui si riferisce non è quella, però, che i palestinesi, nemmeno i più moderati, sono in grado di accettare. Il timore loro è che una volta terminato il cosiddetto “disimpegno” israeliano dalla striscia di Gaza e da quattro insediamenti nel Nord della Cisgiordania occupata, la situazione sul terreno sarà ancora più complicata, soprattutto a Gerusalemme e dintorni, l’area più delicata di tutta la vicenda e la chiave vera della risoluzione del conflitto.
E’ chiaro a tutti, (oppositori e sostenitori, palestinesi e israeliani insieme) che il ritiro costituisce un “precedente storico”, non diverso, forse ancora più importante, della decisione israeliana di negoziare con l’Olp, di firmare un accordo con Arafat sul prato della Casa Bianca, di ammettere ufficialmente, a livello governativo e parlamentare, che accanto allo Stato ebraico può nascere uno Stato palestinese indipendente. Sharon, il falco, l’uomo della politica della colonizzazione (non con questo bisogna dimenticare che il vero ideologo dell’impresa fu, a suo tempo, il leader laburista Shimon Peres), è potenzialmente l’unico (in questa fase della storia israeliana, in mancanza di altri dirigenti “credibili”) a poter trascinare il suo paese verso la pace e il compromesso con i palestinesi. La domanda sulla bocca di tutti, però, è evidente ed è quella di sempre. Sharon è pronto a “dolorose concessioni”, come lui stesso ammette senza precisarle, ma è disposto ad arrivare ad accettare il minimo comune denominatore richiesto per una pace durevole con il mondo palestinese?
Da quando il premier ha annunciato il ritiro da Gaza, la comunità internazionale ha abbassato il tiro, parla poco degli insediamenti o degli avamposti “illegali” che continuano a crescere in numero e popolazione. In poche parole: Non mi dovete disturbare o chiedere troppo, l’esortazione di Sharon, se volete che io possa portare a compimento il ritiro da Gaza di fronte alle proteste della destra, dei coloni. Le vicende di questi giorni, le pressioni dei coloni, le manifestazioni contro il disimpegno, le minacce di guerra civile, sembrano confermare le preoccupazioni e i timori del premier e, per l’Occidente, la necessità di non costringerlo a mettere troppa carne sul fuoco. Quando sarà finito il ritiro (coloni e soldati) a fine anno più o meno, si parlerà della fase successiva. Quale? Il ritiro da Gaza resta per Sharon un’iniziativa unilaterale d’Israele. E non deve essere considerato, continua a ripetere, la prima fase della road map come chiede invece il presidente palestinese per il quale le parti, con l’aiuto della Casa Bianca, dovrebbero intavolare subito negoziati sullo status finale.

Nei discorsi di Sharon troviamo un altro elemento del suo pensiero: arrivare a un accordo basato su frontiere provvisorie e rinviare nel tempo (ha parlato di dieci anni, di una nuova generazione) perché si possa negoziare frontiere definitive, lo status di Gerusalemme, la sorte dei rifugiati. E’ un pensiero, questo del premier, che giustamente spaventa e preoccupa i palestinesi e non soltanto loro. Per dieci anni, a partire dalla storica firma degli accordi d’Oslo sul prato della Casa Bianca, la leadership israeliana ha tergiversato. Rinviava nel tempo i negoziati sullo status finale e lasciava crescere gli insediamenti, soprattutto in Cisgiordania, nonostante le proteste dei palestinesi, della sinistra israeliana e dell’amministrazione americana. Permetteva che i fatti compiuti dei coloni e dei loro sostenitori nell’apparato dello Stato determinassero la realtà. I coloni in Cisgiordania sono più che raddoppiati e continuano ad aumentare, ora, anche in virtù della nuova visione di Sharon per il quale il consolidamento dei blocchi d’insediamenti più vicini alla linea verde e che dovrebbero restare, dopo il negoziato sullo status finale, a Israele, fa parte integrante del piano di disimpegno da Gaza. Israele restituisce ai palestinesi Gaza perché costa troppo difendere poche migliaia di coloni in mezzo a un milione di arabi e in cambio disegna a suo piacimento le frontiere dello Stato che vorrebbe senza preoccuparsi delle rivendicazioni palestinesi.
Se è vero che un’intesa di massima sulla sorte dei blocchi d’insediamenti fu raggiunta dallo stesso Arafat a Camp David nel 2000 e nei successivi negoziati di Taba, è vero anche che i fatti compiuti israeliani stanno rendendo sempre più problematica la possibilità di un’intesa su Gerusalemme. E senza la restituzione della parte orientale della città santa alla sovranità palestinese non ci sarà mai uno Stato palestinese. Sharon è un convinto assertore della non divisibilità di Gerusalemme che, per lui, deve restare la capitale eterna dello Stato ebraico, e lo sviluppo edilizio nella città, insieme con il tracciato del cosiddetto muro di sicurezza (sta tranciando in due interi quartieri arabi per mettere sul lato israeliano più territorio possibile e nel contempo ridurre la presenza palestinese) gioca a favore della politica del premier. Che per certi versi assomiglia a quella di un suo abile (ma meno di lui) predecessore. Itzhak Shamir ammise, dopo essere stato sconfitto dai laburisti, di aver accettato di andare alla conferenza di pace di Madrid con l’unico scopo di guadagnare tempo e consentire la crescita degli insediamenti in Cisgiordania. Nel giro di dieci anni, disse in una famosa intervista, la colonizzazione sfrenata avrebbe reso impossibile la restituzione del territorio e, dunque, non si sarebbe potuto più parlare di Stato palestinese.

Ci sono molti motivi, oggi, per pensare che l’attuale presidente americano non sia disposto ad accettare le finalità di Sharon. Bush continua a “sognare” uno Stato palestinese democratico per dare un senso alla sua criticata e finora fallimentare politica mediorientale. Il ritiro da Gaza gli offre un precedente formidabile per andare avanti. Ma Sharon, oggi, sta facendo di tutto per remare contro gli obiettivi dichiarati dell’Amministrazione. Nonostante le quasi quotidiane esortazioni americane, fa poco di concreto per consolidare il potere e la credibilità di Abu Mazen (Mahmoud Abbas). Alcuni suoi collaboratori hanno persino definito il neo presidente, moderato ma poco amato dalla sua stessa gente, “irrilevante” come già hanno fatto con Arafat. Un crollo dell’Autorità palestinese, non impossibile, giocherebbe a favore di Sharon. Così come giocherebbe a suo favore una nuova intifada a ridosso del ritiro da Gaza o subito dopo il ritiro israeliano (ammesso che possa svolgersi senza intoppo e senza uno scontro violento tra coloni e destre da una parte e autorità dello Stato ebraico dall’altra).
Nel processo avviato da Sharon ci sono indubbiamente gli elementi positivi costituiti di un precedente nella giusta direzione (e approvata dalla maggioranza della popolazione d’Israele) ma anche una serie di trappole, palesi peraltro, che potrebbero rapidamente bloccare, se non peggio, il ritorno al processo di pace.

NOTE SULL'AUTORE 

Eric Salerno

Giornalista, inviato speciale, esperto di questioni africane e mediorientali, è corrispondente de Il Messaggero. Con il Saggiatore ha pubblicato Uccideteli tutti! (2008), Mossad base Italia (2010), Rossi a Manhattan (2013) e a marzo 2016, Intrigo.

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