Data pubblicazione: 4 luglio 2005
Ad ogni incontro, a partire dalla sua rielezione a premier, Ariel Sharon ripeteva una generica promessa: “Quando verrà il momento, sarò pronto a fare dolorose concessioni”. Inutile chiedergli di essere più preciso: “Non voglio rivelare quali concessioni”, era la sua risposta. Annegata nella convinzione che con l’allora presidente dell’Autorità nazionale palestinese Yasser Arafat fosse assolutamente inutile qualsiasi forma di dialogo. Eppure, quella promessa di Sharon non era uno slogan senza sostanza, diffuso per seguire la terapia d’immagine che l’anziano generale, con un passato turbolento, aveva deciso di rispettare. Uno dei suoi consiglieri, esperto di pubbliche relazioni, gli aveva infatti suggerito di convergere verso il centro: “Arik-gli aveva detto, prima delle elezioni-in una scala da 1 a 5, considerando 1 l’estrema sinistra e 5 l’estrema destra, sei arrivato a 4,7. Se vuoi farcela, devi entrare nella griglia 2,6 – 3,2” (Time, 23 maggio 2005).
Il premier ha accettato la medicina. Ma questo ovviamente non bastava per costruire una nuova e convincente immagine, per dimostrare insomma che Sharon non era più l’uomo del passato. Occorreva un impegno costante e credibile da parte del primo ministro. Un uomo che, dopo la morte della moglie (alla quale era legatissimo), ripeteva di voler entrare nei libri di storia come colui che “ha fatto la pace con i palestinesi, garantendo la massima sicurezza per Israele”.
Nel mese di novembre 2003 gli allarmati rapporti dei servizi di sicurezza gli avevano prospettato un quadro desolante. Restare a Gaza sarebbe stato un suicidio: non soltanto per il governo e per il Paese, ma per il futuro della democrazia israeliana. E’ a quel punto che Sharon si è convinto a compiere il passo. Lui, l’uomo dello sviluppo indiscriminato degli insediamenti, stava diventando il primo capo del governo di Israele pronto a smantellare tutte le colonie ebraiche nella striscia di Gaza. “Ecco la prima dolorosa concessione”. Chi riteneva che Sharon ci avrebbe ripensato, sbagliava. A costo di pagare il prezzo più alto, il leader ha spaccato il suo partito (il Likud), ha cambiato alleati, coinvolgendo il partito laburista e quindi dando vita ad un esecutivo di unità nazionale, e ora si prepara a rendere esecutivo il suo piano, sotto la grave e costante minaccia dei coloni più estremisti (una minoranza), che non nascondono di voler resistere fino a trascinare il Paese in una guerra civile.
Il problema, adesso, non è di sapere che cosa accadrà dopo la metà di agosto, quando lo smantellamento degli insediamenti sarà realizzato e completato, ma prevedere che cosa possa accadere da qui alla metà di agosto. Le notizie che quotidianamente giungono dalla regione sono pessime e le possibilità di un nuovo e devastante conflitto sono infatti reali.
Quanto accade dimostra che il passo che si sta per compiere è davvero storico, per almeno due ragioni: si rompe il tabù dell’intangibilità degli insediamenti in Palestina, e si dimostra che smantellarli non è impossibile. Un percorso che, in fututo, potrebbe essere seguito anche in Cisgiordania, magari con opportuni scambi di territori per preservare le colonie maggiori, che ormai sono diventate città. I palesetinesi, all’inizio, erano ostili al piano, perchè lo ritenevano
un tentativo di creare, di fatto, il ghetto di Gaza, isolato dal resto dei Territori, per giustificare future annessioni in Cisgiordania. La costruzione del muro (o, barriera difensiva) e il conseguente drenaggio di altra terra palestinese era ritenuto la prova della “trappola”. Tuttavia, dopo la morte di Arafat e l’elezione del nuovo presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen), il rifiuto del piano aveva lasciato il posto ad un atteggiamento che potremmo definire di assenso critico. In poche parole: sì al ritiro da Gaza, purchè sia soltanto una tappa e non il traguardo. Ecco perchè “potenzialità” e “limiti” in sostanza si equivalgono. Il problema è che sia Sharon sia Abu Mazen mettono in gioco, per intero, la propria credibilità: il primo per dimostrare d’essere l’unico a poter imporre ad Israele le rinunce necessarie per giungere un giorno alla pace con i palestinesi; il secondo perchè si assume la responsabilità di fermare i propri estremisti, impedendo che una nuova ondata di violenza facca crollare tutto. Ma sia Sharon sia Abu Mazen, per ragioni anagrafiche, sanno bene che la prossima tappa, probabilmente, toccherà ai loro successori.
Abbiamo detto e scritto molte volte che il processo di pace, nato con gli accordi di Oslo, è stato colpito a morte e non esiste più. In fondo, non è vero, o è vero soltanto in parte. Perchè senza Oslo non sarebbe nata l’Autorità nazionale palestinese (che sopravvive, pur tra mille difficoltà), e non si sarebbe dimostrato concretamente che la terra può essere scambiata con la pace. Il ritiro da Gaza significa, come si diveva prima, la fine di un tabù. In futuro conterà. Anzi, conta già oggi. Nel Medio Oriente, anche i passi più modesti sono fondamentali.
NOTE SULL'AUTORE
Antonio Ferrari
Giornalista e scrittore, nato a Modena nel 1946. Ha cominciato come cronista al «Secolo XIX» di Genova, e dal 1973 è al «Corriere della Sera»: inviato speciale ed editorialista. Dopo aver seguito gli anni del terrorismo italiano, con le trame nere e rosse, è passato all'estero. Prima in Europa e nei Paesi dell'Est comunista, per approdare nei Balcani, nel Medio Oriente e in Nord Africa. Ha seguito quasi tutte le crisi di queste regioni, le guerre, i tentativi di pacificarle. Ha intervistato, nel corso degli anni, quasi tutti i leader di un'area estesa ed estremamente variegata. È membro del Comitato scientifico del CIPMO (Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente) e di Gariwo (La foresta dei Giusti).
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