L’Editoriale

Il voto del Consiglio di Sicurezza dell’ONU contro gli insediamenti israeliani è il lascito di Obama a Netanyahu e Donald Trump

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 24 dicembre 2016

La Risoluzione approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che venerdì ha condannato come illegali gli insediamenti ebraici al di là della Linea Verde (il confine armistiziale che divideva Israele dai Territori palestinesi annessi dai giordani, fino alla Guerra del ’67), compresi quelli di Gerusalemme Est, è piombata come una mazzata su Netanyahu e il suo Governo, e sullo stesso Trump.

Fino a 24 ore prima, il Premier israeliano era convinto di essere riuscito a scampare il pericolo, dopo aver convinto l’Egitto, con massicce pressioni e minacce sia da parte sua che dal prossimo Presidente USA, a ritirare la Risoluzione avanzata. Ma Venezuela, Nuova Zelanda, Malesia e Senegal l’hanno riproposta, ed a questo punto la rappresentante USA all’ONU, Samantha Power, ha annunciato con un appassionato discorso l’astensione USA, e la conseguente rinuncia a porre il veto sulla Risoluzione, che è stata approvata all’unanimità con 14 voti favorevoli e una astensione.

“Non si può, ha affermato la rappresentante USA rivolgendosi a Netanyahu, proporsi simultaneamente come campione nell’espansione degli insediamenti e campione di una viabile soluzione a due stati che ponga fine al conflitto. Uno deve fare una scelta tra insediamenti e separazione (dei due stati, ndr)”.

La Risoluzione non solo afferma che tali insediamenti non hanno valore legale e costituiscono una fragrante violazione della legge internazionale, costituendo un ostacolo maggiore al raggiungimento di una pace e di una soluzione a due Stati, ma afferma di non riconoscere come legale alcun cambiamento apportato sul terreno oltre la linea verde dopo il ’67, tranne quelli che saranno concordati tra le parti attraverso negoziati, e invita Israele a cessare immediatamente e completamente ogni attività negli insediamenti esistenti.

La Risoluzione chiama anche tutti gli Stati, nei loro accordi di rilevante importanza, “a distinguere tra il territorio dello Stato di Israele e i territori occupati dal 1967”. Un riferimento a procedure come quelle già attuate dalla Unione Europea, che ha imposto di non utilizzare i finanziamenti pubblici e privati, concessi a Israele, nei Territori occupati; e l’utilizzazione di etichette di origine sui prodotti provenienti dai Territori occupati diverse da quelli di “Made in Israel”. Decisioni che hanno attirato le accuse di antisemitismo da parte israeliana, e minacce di boicottaggio verso la UE poi forzatamente rientrate, e che ora la Risoluzione invita tutti gli Stati ad adottare e fare proprie.

Il testo adottato inoltre sottolinea di fatto che i confini del ’67 sono quelli di riferimento per l’avvio di ogni trattativa, salvo possibili scambi territoriali concordati.

Vi è poi una parte che condanna ogni forma di violenza e di terrorismo rivolto contro i civili, “inclusi tutti gli atti di provocazione o di distruzione” e a rafforzare la lotta contro il terrorismo, anche attraverso l’esistente cooperazione di sicurezza esistente tra le parti. Va sottolineato che la condanna di tali atti non si riferisce solo alla parte palestinese, che non viene specificamente nominata, ma anche alle provocazioni anti arabe messe in atto da estremisti israeliani, originate sia negli insediamenti, che dentro al cuore stesso di Israele. È la parte che ha permesso agli Usa di considerare la Risoluzione abbastanza, anche se ancora insufficientemente, bilanciata.

Si continua poi invitando entrambe le parti a conservare la calma e l’autocontrollo, astenendosi da ogni azione provocatoria, di incitamento all’odio, e di retorica che infiammi gli animi, cercando di de-scalare la situazione sul terreno e ricostruire la fiducia, creando l’atmosfera necessaria per promuovere la pace.

Nella parte finale, si fa appello a rilanciare il negoziato per giungere ad un accordo finale (Final status), facendo riferimento tra l’altro alla Road Map del Quartetto (USA, Russia, UE e ONU); alla recente dichiarazione del Quartetto del 21 settembre 2016; alla Iniziativa Araba di Pace del 2002, recentemente rilanciata congiuntamente dal Presidente egiziano Al-Sisi e dallo stesso Netanyahu); alla Iniziativa Francese di pace, portata avanti negli ultimi tempi da Parigi, che postula la convocazione a breve di una Conferenza Internazionale di Pace, come quella di Madrid del ’91, che detti i termini di un possibile accordo di pace, nonché infine gli sforzi portati avanti da Russia e Egitto.

C’è di che far venire il mal di testa a Netanyahu, che si è affrettato a rifiutare in toto la Risoluzione, denunziando il tradimento di Obama. Anche Trump ha twittato che dopo il suo insediamento, “Per quanto riguarda l’ONU, con il 20 gennaio le cose cambieranno”.

Ma le cose non sono così semplici. Anche se la Risoluzione è stata adottata in base all’articolo 6 e non all’articolo 7 del regolamento del Consiglio, e quindi non ha valore coercitivo e non prevede l’imposizione di sanzioni per la sua attuazione, una Risoluzione del Consiglio di sicurezza fa testo dal punto di vista della legislazione internazionale. Ciò vale anche per la Corte internazionale dell’Aja, dove sono pendenti i ricorsi dei palestinesi contro gli insediamenti. Israele rischia di essere dichiarato fuori legge, come lo fu a suo tempo il Sud Africa.

Anche la promessa di Trump di porre riparo all’accaduto dopo il suo insediamento non ha molto fondamento: una volta approvata, una Risoluzione del Consiglio resta in vigore finché un’altra opposta non la cancelli, ed è dubbio che il nuovo Presidente riesca a raggranellare una maggioranza allo scopo, evitando il ricorso al veto di Russia e Cina e degli altri membri permanenti del Consiglio stesso.

Per finire, John Kerry, il Segretario di Stato uscente, ha preannunciato per i prossimi giorni un intervento pubblico, in cui enuncerà la sua visione, e quindi quella dell’Amministrazione Obama, sul Conflitto israelo-palestinese. Forse una replica dei Clinton Parameters del dicembre 2000, dopo il fallimento dei negoziati di Camp David 2.

Come già altri presidenti Usa prima di lui a partire da Reagan, Obama intende utilizzare fino all’ultimo giorno del suo mandato, durante la fase transitoria tra l’elezione del nuovo Presidente e il suo insediamento, per lasciare la sua impronta per la soluzione di quel conflitto, che non è riuscito a risolvere mentre era in carica.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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