L’Editoriale 

Il pendolo di Gaza

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 15 novembre 2018

Le dimissioni del Ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman, leader del partito Yisrael Beitenu, formazione di destra laica, con un elettorato prevalentemente di origine russa, sono testimonianza di quanto abbia inciso negli assetti politici interni israeliani la prolungata crisi di Gaza, iniziata con la proclamazione da parte di Hamas delle “Marce del Ritorno” settimanali, ogni venerdì, a partire dallo scorso 28 marzo. Dopo una posizione inizialmente moderata, negli ultimi mesi Lieberman aveva indurito le sue proposte, avanzando nel Consiglio di Gabinetto  la richiesta di dare una massiccia risposta alle continue provocazioni di Hamas, ristabilendo così la deterrenza israeliana, secondo lui oramai deterioratasi, per colpa dell’atteggiamento più che cauto assunto da Netanyahu. Il Premier è deciso a non farsi trascinare in una nuova guerra nell’infida Striscia, in grado di causare numerose vittime e forti danni sia alle forze armate impegnate nell’operazione, sia alla stessa popolazione civile israeliana; e questo alla vigilia di probabili elezioni anticipate, dai più date per certe per la primavera 2019.

 
La mossa di Lieberman può essere definita in gergo scacchistico la classica “mossa del cavallo”: mentre i sondaggi danno il suo partito ai limiti della soglia di ineleggibilità per le  prossime elezioni legislative, egli si mette in condizione di condurre la campagna elettorale attaccando la debolezza del Premier, e contestualmente la sostanziale arrendevolezza del suo principale avversario sulla destra, il Ministro dell’Istruzione e leader di The Jewish Home, il partito nazional religioso di ultradestra Naftali Bennet, che da tempo aspira a succedere a Natanyahu, e che nei mesi passati aveva accusato Lieberman di codardia e cedevolezza.
 
D’altronde, dopo i ripetuti annunci di raggiunti accordi di cessate il fuoco tra Israele, Hamas e le altre fazioni armate presenti a Gaza (accordi mediati, attraverso negoziati indiretti, dalla Sicurezza egiziana e personalmente dallo stesso Presidente Al-Sisi, insieme all’attivissimo inviato speciale dell’ONU nell’Area Vladimir Mladenov, cui ultimamente si sono aggiunti Qatar, Norvegia e Svizzera), si sono verificati scoppi di violenza sul terreno che ogni volta hanno fatto ripartire da zero il negoziato. Sicuramente, gli spoiler che vogliono mettere fine a questi tentativi di arrestare la corsa verso una nuova guerra si fanno sempre più forti.
 
L’ultima gravissima crisi, iniziata domenica e durata fino a martedì, causata dalla scoperta, da parte delle milizie di Hamas, di un’operazione segreta condotta da forze speciali israeliane travestite da arabi all’interno della Striscia, è stata la più violenta di tutte: circa 500 razzi sparati da Gaza, di cui due hanno raggiunto il Centro di Israele come ammonimento della potenziale gittata dei missili posseduti dalle milizie palestinesi; il comandante dell’unità israeliana ucciso e il suo vice gravemente ferito; un bus israeliano che trasportava soldati al confine con Gaza centrato da un missile anticarro, con un morto. Dall’altra parte, sono state condotte quasi 200 missioni aeree contro bersagli mirati di Hamas e dello Jihad islamico, con danni gravissimi ma con un numero relativamente basso di vittime civili.
 
Tuttavia, mercoledì, come si è detto, è stato proclamato un nuovo cessate il fuoco, richiesto da Hamas attraverso i diversi mediatori già ricordati, e fortemente voluto da Netanyahu, che lo ha sostanzialmente imposto ai suoi ministri.
Le ragioni di questo atteggiamento estremamente cauto, del tutto opposto all’immagine di “Mister Security” generalmente attribuito al Leader, sono state chiaramente riassunte in un’importante intervista rilasciata a Parigi lo scorso 11 novembre, in occasione delle celebrazioni per la fine della Grande Guerra.
 
In quell’intervista, dopo aver affermato di voler evitare un collasso umanitario a Gaza, e di aver perciò concesso al Qatar di inviare a Gaza carburante per rifornire gli abitanti di energia elettrica e denaro per pagare i dipendenti pubblici, egli ha detto di voler fare ogni cosa per evitare una guerra non necessaria, che al suo termine lascerebbe le cose come stanno ora.
Ha altresì aggiunto che, anche in caso di conquista di Gaza e di rimozione di Hamas dal potere, nessuno sarebbe disposto ad assumere il controllo della Striscia, a partire dallo stesso Israele.
Egli ha concluso che Israele è a un passo dall’esercitare il massimo della forza, e che Hamas lo comprende: perciò prima di tutto il suo Governo cerca di ristabilire la calma, e solo successivamente, se la calma reggerà, di raggiungere un accordo più lungo e impegnativo.
E’ significativo che quelle posizioni siano state ribadite nel Consiglio di Gabinetto di martedì, malgrado l’opposizione di Lieberman e Bennet, e anche grazie al convinto appoggio di tutti i capi dei Servizi di Sicurezza, che partecipavano alla riunione.
 
Alla base di questa ferma opzione di Netanyahu, oltre alla già ricordata imminenza della possibile campagna elettorale, e dei rischi relativi alle ricadute sull’opinione pubblica delle drammatiche conseguenze, della guerra, vi è anche l’aspirazione a consolidare i rapporti con gli altri Stati Arabi, di cui anche la recente visita in Oman è stata testimonianza, e la convinzione che una nuova guerra nella Striscia danneggerebbe gravemente l’importante processo di apertura in atto verso i Paesi limitrofi.
Quanto ai leader di Hamas, essi sono pienamente consapevoli di questi limiti e contraddizioni cui Israele deve fare fronte, e la tentazione di alzare sempre più la posta dello scontro deve essere certamente forte.
 
 Il pendolo tra pace e guerra, a Gaza, dunque, oscilla sempre più forte, e nei giorni scorsi ha rischiato di sganciarsi. Eppure, questa guerra sarebbe inutile e insensata, e va fermata con ogni sforzo anche dalla Comunità internazionale, e dalla stessa Europa che in questi giorni è stata clamorosamente assente.
 

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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