L’Editoriale

La partita doppia di Netanyahu

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:22 agosto 2016

Netanyahu sta giocando una partita complessa: da un lato si trova di fronte alla Iniziativa Francese, fatta propria dalla UE, che propone di convocare entro la fine dell’anno una Conferenza Internazionale per discutere di come far ripartire il processo di pace tra israeliani e palestinesi, interrotto dall’aprile 2014 (con il collasso dell’iniziativa di pace del Segretario di Stato USA John Kerry), individuando le guidelines per una soluzione al conflitto.

D’altronde, con il summit convocato a Parigi il 3 giugno scorso, cui hanno partecipato, 26 nazioni, tra cui, Cina, Russia Germania, Inghilterra, Italia, Egitto, Arabia saudita, Giordania, e lo stesso John Kerry per gli Usa, la proposta francese è stata discussa a fondo, ha ricevuto un primo avallo e resta sul tappeto come una bomba ad orologeria innescata.

Kerry al riguardo ha dichiarato: “Non ho ancora idea se essa si terrà. Credo sia saggio tenere aperte tutte le possibilità.” Nel caso gli Usa vogliano rilanciare a fine anno la partita, è dubbio che vogliano lasciarne ai francesi il merito. Molti commentatori ipotizzano infatti che il Presidente Obama possa utilizzare il periodo tra l’elezione del nuovo Presidente Usa, l’8 novembre, e il suo insediamento, il 20 gennaio 2017, per imprimere una svolta al conflitto, lasciando un segno anche su questo nodo irrisolto della sua politica internazionale. La Conferenza potrebbe essere un passaggio che potrebbe preludere a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, cui per la prima volta gli USA potrebbero non opporre il loro veto. Altri avanzano invece la possibilità che il Presidente uscente colga quella finestra di opportunità per enunciare ufficialmente e in dettaglio i suoi “Parametri” per la soluzione del conflitto.

È proprio questo che teme il leader israeliano, che d’altronde vede come il fumo negli occhi l’iniziativa francese, che tende a coinvolgere nuovamente la Comunità internazionale, scavalcando i negoziati diretti tra le parti, d’altronde inesistenti. D’altra parte, lo stato delle relazioni con l’Amministrazione Obama è sempre stata travagliato, in particolare dopo l’intervento di Netanyahu contro l’accordo con l’Iran in preparazione, pronunciato nel marzo 2015 davanti al Congresso USA, riunito su iniziativa della maggioranza Repubblicana, scavalcando il Presidente USA: è ancora di questi giorni l’ultima esternazione del nuovo Ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, che ha comparato quell’accordo al Patto di Monaco siglato da Chamberlain con i nazisti, suscitando la furiosa reazione USA, che lo ha costretto ad una ingloriosa retromarcia.

Lo stesso nuovo accordo decennale di aiuto militare Usa a Israele, che sta per essere finalizzato, pur arrivando ad una somma di 3,7miliardi di dollari annui, rispetto ai 3 miliardi precedenti, risulta largamente inferiore alle attese e alle previsioni di Netanyahu, proprio a causa di queste permanenti tensioni, come sottolinea il noto opinionista Nahum Barnea su Ynetnews.

Da qui la nuova iniziativa israeliana, tendente a rilanciare l’iniziativa diplomatica su un piano regionale, utilizzando l’allineamento di interessi con i paesi arabi a direzione sunnita, quali l’Egitto, la Giordania e l’Arabia Saudita, e anche gli Emirati Arabi Uniti, tutti spaventati per il ritorno in campo dell’Iran come grande potenza regionale.

Il 17 Maggio, il Premier egiziano, Generale Al Sisi, ha offerto la sua disponibilità a favorire la ripresa dei negoziati tra israeliani e palestinesi, rilanciando il Piano Arabo di Pace: il Piano di iniziativa saudita, proposto dalla Lega Araba nel 2002, che propone la normalizzazione dei rapporti con lo Stato ebraico da parte di tutti gli Stati arabi, se Israele restituisce i territori arabi occupati nel ’67 (con possibili limitati scambi territoriali mutuamente concordati), consente la creazione di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est, e dà una soluzione “giusta e concordata” al problema dei rifugiati.

Il 30 maggio, nella discussione alla Knesset che annunciava il rientro di Avigdor Lieberman al governo, come Ministro della Difesa, Netanyahu coglieva l’occasione per salutare insieme al nuovo ministro il pronunciamento di Al Sisi, e per dichiarare che egli restava impegnato al raggiungimento della pace con i palestinesi e con tutti gli altri vicini. “Il Piano di Pace Arabo, affermava, contiene elementi positivi che possono aiutare a far rivivere negoziati costruttivi con i palestinesi. Noi siamo pronti a negoziare con gli Stati arabi revisioni di questa iniziativa che riflettano i drammatici cambiamenti avvenuti nella nostra regione dal 2002, quando la proposta fu avanzata, mantenendo lo scopo condiviso di due stati per due popoli”.

Il 7 giugno, Netanyahu era a Mosca per incontrare Putin, che salutava “l’incondizionata alleanza tra i due paesi nella lotta contro il terrore”. I due hanno infatti discusso di Siria, confermando un precedente accordo per evitare incidenti aerei nella zona, ma sicuramente anche della nuova iniziativa diplomatica dell’Egitto, con cui la Russia sta stringendo contatti sempre più forti. Sullo sfondo, la sempre più stretta cooperazione economica e tecnologica tra Mosca e Gerusalemme.

Il 22 giugno, in una visita non ufficiale, effettuata su invito di Jibril Rajoub, storico dirigente palestinese, il Generale in congedo Anwar Eshki, dall’Arabia Saudita, visitava Israele con una delegazione di accademici e uomini d’affari, e teneva incontri con diplomatici e responsabili della sicurezza di alto livello e con parlamentari israeliani, nella Knesset, promuovendo il Piano Arabo di Pace. Anche se non si trattava di una visita ufficiale, era la prima volta che esponenti sauditi visitavano pubblicamente il paese.

Il 26 – 27 giugno, il leader israeliano aveva due giorni di incontri a Roma con il Segretario di Stato Usa John Kerry, informandolo sugli sviluppi della situazione.

Lo stesso 26 giugno, veniva annunciato il raggiungimento dell’accordo con la Turchia, che chiudeva il lungo contenzioso apertosi nel 2010, con l’arrembaggio israeliano al battello Mavi Marmara, che cercava di forzare il blocco a Gaza, arrembaggio che causò la morte di nove attivisti della nave, di cui 8 turchi.

Il 10 luglio, il Ministro degli esteri egiziano, Sameh Shoukry, visitava Gerusalemme, prima visita di questo livello dopo nove anni, ed incontrava Netanyahu, che salutava positivamente l’iniziativa del Presidente egiziano.

D’altronde, l’iniziativa diplomatica regionale israeliana si inquadra in un ancora più ampio ventaglio di contatti e missioni a livello globale, dalla trionfale missione di inizio luglio nel Centro-Africa del leader israeliano, accompagnato da una folta delegazione di uomini d’affari, che lo ha portato in Kenya, Uganda, Ruanda e Etiopia. Al centro dei colloqui, la lotta contro il terrorismo, l’energia, l’agricoltura. Per non menzionare la sempre più estesa cooperazione economica con la Cina, e soprattutto con l’India.

Un quadro, quindi, che è l’esatto opposto del presunto isolamento israeliano di cui tanto si parla, e che vede al contrario una crescente marginalizzazione del ruolo della Autorità Nazionale Palestinese, indebolita dai contrasti interni e dall’irrisolta spaccatura con Hamas e dalla permanente separazione da Gaza.

L’iniziativa regionale di pace di Netanyahu si presenta quindi con una cornice solida, non è semplice fumo. Il suo problema, come acutamente nota su Haaretz Daniel Levy, neo Presidente dell’US / Middle East Project, è con che cosa riempire quella cornice, come procedere in concreto, con la maggioranza di cui dispone, nel compiere le difficili scelte che la pace con i Palestinesi comporta. È fondata la richiesta israeliana che quella pace possa fondarsi su una garanzia regionale araba, data la nuova complessità del quadro regionale e la fragilità della controparte palestinese. È difficile tuttavia che gli Stati arabi possano accontentarsi di semplici dichiarazioni di principio, senza che alle parole seguano i fatti. Se questo non avverrà, la nuova “Iniziativa regionale” israeliana rischia di restare l’ennesimo esercizio di propaganda diplomatica, in cui il leader israeliano è maestro.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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