L’Editoriale

Parigi. I lupi in branco

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:15 novembre 2015

A Parigi non si sono mossi più lupi solitari, che assaltano singole vittime in nome di Allah. Ha colpito un branco selvaggio ma bene organizzato, che ha agito in sette distinti obbiettivi di Parigi, incluso lo stadio ove si giocava un’amichevole tra Francia e Germania, alla presenza del Presidente Hollande; un Mc Donald; la sala concerti del Bataclan, ove si è registrato il più alto numero di vittime, quasi 90 morti. Un branco composto in prevalenza da cittadini europei, e alimentato da terroristi che si uniscono all’inarrestabile flusso di rifugiati che si riversa sull’Europa.

Un branco quindi ben radicato in questa nostra Europa, da cui provengono, non scordiamolo, oltre 15.000 “Foreign Fighters” che hanno raggiunto le file dell’ISIS. Un’Europa ove sono attivi gruppi terroristici locali stabili, che agiscono potendo contare sul supporto finanziario, militare, organizzativo e strategico del Califfato, un “non Stato” che controlla un territorio tra Siria e Iraq grande più dell’Italia, un territorio da cui trae risorse e strumenti di lotta.

Obbiettivo questa volta non sono stati il quartiere ebraico, o un settimanale “blasfemo” come Charlie Hebdo, ma i luoghi emblematici della Parigi del lusso e della corruzione, della città del peccato che offende l’Islam. Ma anche la Francia che insieme agli USA e ai Russi bombarda le basi dell’ISIS in Siria.

Le illusioni che gli jiadisti dell’ISIS concentrassero i loro sforzi in loco, per difendere ed estendere il territorio del Califfato, vengono oramai a cadere: la guerra si fa globale, come globale è la coalizione che attacca l’ISIS, e l’Europa è uno di terreni principali su cui questa guerra si svolge.

Dopo gli attacchi di gennaio di Parigi, vi sono stati gli attacchi in Tunisia al Museo del Bardo e al resort vicino a Sousse, la bomba sull’aereo russo esploso sul Sinai, il massiccio attacco terroristico contro il quartiere sciita di Beirut: siamo di fronte ad una dichiarazione di guerra globale, “tout azimut”. Ed ora vengono le minacce a Roma, città dove è sito il Vaticano, simbolo dei crociati.

Un’altra caratteristica degli ultimi attacchi è di rappresentare una “summa” delle precedenti esperienze del terrore, dall’attacco dei terroristi ceceni al teatro Dubrovka, a Mosca, dell’ottobre 20202, alla bomba libica esplosa sul volo Pan Am 103 sopra Lockerbie, alle cinture esplosive dei martiri di Hamas, usate poi su scala di massa dai Boko Haram in Nigeria. Un micidiale frullato di morte, che si abbatte sul nostro continente.

A questa ondata di ferocia e di morte la prima reazione è gridare che è necessario rispondere, subito, vendicarsi, colpire il nemico, demonizzare l’Islam barbaro.

Ma reagire come? Espellendo i milioni di musulmani che sono oramai oltre il 5% dei cittadini europei? Mettendoli tutti sotto il controllo degli apparati di sicurezza? Bloccando l’accesso agli immigrati e ai rifugiati? Dichiarando una guerra di religione, chiudendo i luoghi di preghiera islamici, i loro punti di ritrovo?

Misure di sicurezza più stringenti e efficaci certamente vanno adottate subito, e lo si sta facendo.

E’ prevedibile che nell’immediato Francia e Stati Uniti reagiscano intensificando i bombardamenti sulle centrali dell’ISIS. Ma la soluzione non può essere ricercata solo sul terreno militare o su quello della repressione, peraltro difficile da condurre con successo.

La lotta al terrore non può essere condotta dai singoli stati E’ necessario un vasto coordinamento dell’intelligence e delle forze di sicurezza a livello continentale e internazionale, coinvolgendo gli Stati Uniti, la Russia, gli Stati arabi, creando e rafforzando appositi strumenti internazionali di lotta al terrorismo, che assicurino il necessario collegamento, lo scambio di informazioni, la direzione collettiva di una lotta contro un nemico che si è fatto globale.

A questa lotta vanno chiamati a partecipare gli Stati musulmani, oltre le storiche rivalità tra sunniti e sciiti, tra Arabia Saudita e Iran, ed i centri della dottrina islamica, quelli sunniti, come Al.Azhar al Cairo, e i centri sauditi, a La Mecca o a Medina; o quelli sciiti, come il Centro di Najaf  in Iraq, guidato dall’Ayatollah Alì al-Husani al-Sistani, o l’altro grande Centro sciita di Qom, in Iran. Uniti per contrastare lo jiadismo di impronta wahabita, fonte ispiratore dell’ISIS. Un’alleanza improbabile, direi, ma necessaria per estirpare le fonti di questo male.

Vanno altresì chiamate le comunità islamiche in Europa, cui deve essere garantita libertà di fede e tutela dei diritti civili, ma che non possono sentirsi estranee, neutrali in questa lotta vitale per assicurare un futuro di democrazia e libertà a questo nostro continente, di cui sono cittadini o che li ospita come immigrati o rifugiati.

E’ necessario prosciugare l’acqua in cui nuotano i pesci del terrore: gli estremisti e gli aspiranti terroristi vanno isolati all’interno delle loro comunità, e se necessario da esse stesse denunciati alle autorità di sicurezza, come riuscì a fare la classe operaia italiana ai tempi delle Brigate Rosse, sotto l’impulso di eroi come Guido Rossa.

Infine, la Comunità internazionale, con l’ONU, deve porsi il problema di come eliminare questa strana anomalia che si chiama Califfato, riportando la pace in quella regione, e cancellando la base territoriale da cui ha origine questa ondata di terrore. Ma questo non può essere fatto con qualche bombardamento in più, o con iniziative unilaterali russe, francesi o americane, alla testa di una dubbia coalizione di cui fanno parte i finanziatori e gli ispiratori dell’ISIS, negli Emirati e nella stessa Arabia Saudita, con i loro servizi segreti in piena attività e i loro rifornimenti di soldi e massicce forniture militari alle bande jiadiste. Per non parlare dell’atteggiamento più che ambiguo della Turchia, attenta più a contrastare la nascita di uno Stato curdo alle sue frontiere, che a combattere l’ISIS, cui troppo spesso ha aperto valichi e passaggi, per poi ritrovarsela in casa a creare turbolenza e a programmare attentati.

Va ugualmente assicurata una stabilizzazione dell’Iraq, con un reale coinvolgimento delle popolazioni sunnite e curde nella gestione del potere, superando definitivamente il settarismo esclusivista del passato premier Al Maliki, con una coerente politica inclusiva di tutte le comunità del paese che non può certo dirsi compiutamente realizzata.

La questione di fondo è il futuro della Siria, come uscire da questa sanguinosa crisi, innescata con troppa leggerezza e alimentata dal desiderio di riscossa sunnita. Una crisi che non è la rivolta di un popolo contro il tiranno Assad, ma una guerra civile combattuta tra diverse comunità nazionali e religiose, sunniti, alawiti-sciiti, cristiani, curdi e tante altre, che non vogliono soccombere a rischio di essere perseguitate e assoggettate. Una guerra che non può terminare con vincitori e vinti, ma solo con un accordo tra le parti, che garantisca una fase di transizione assistita ed un governo unitario in cui tutti siano partecipi e si sentano sicuri.

Per arrivare a questo obbiettivo, come emerge sempre più chiaramente negli incontri di Vienna, la pregiudiziale non è la caduta di Assad, che rischia di consegnare il paese all’ISIS, ma quale Siria si vuole costruire dopo Assad, con la partecipazione delle sue diverse componenti nazionali e con il necessario coinvolgimento dei grandi players, dalla Russia agli Stati Uniti, dall’Arabia Saudita e gli Emirati all’Iran, alla stessa Turchia e a questa nostra Europa che ha un suo ruolo da giocare e può giocarlo, se non si lascia trascinare dalle fughe in avanti avventuriste della Francia e della stessa Gran Bretagna, di cui abbiamo già amaramente sperimentato gli effetti in Libia.

Solo in questo quadro sarà possibile porre fine al Califfato, realizzando se necessario anche azioni di peace enforcing basate sulla legittimità internazionale sull’ONU, le uniche che possono davvero assicurare soluzioni stabili e durature.

In questa ottica sembrerebbe necessario anche riprendere in mano il conflitto israelo-palestinese, la cui persistenza alimenta la propaganda jiadista, anche se oggi esso non può certo essere definito il cuore del conflitto.

Un libro dei sogni, questo? Forse, e comunque una strada difficile da percorrere, e piena di ostacoli, di cui bisogna essere lucidamente consapevoli, senza ottimismi infondati e false illusioni.

Ma l’unica strada percorribile, perché le altre scorciatoie che ci vengono proposte sono solo destinate a portarci in vicoli ciechi e a provocare altro sangue e altri drammi forse anche più spaventosi.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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