L’Editoriale

Il ritorno di Netanyahu

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:19 marzo 2015

L’inaspettata vittoria di Netanyahu ha dimostrato che si può fare un uso rovesciato dei sondaggi, che le previsioni di sconfitta possono essere utilizzate per mobilitare gli incerti e recuperare l’elettorato che aveva deciso di rivolgersi alle altre minori formazioni di destra. Il vantaggio di 3-4 seggi che veniva attribuito al rivale Isaac Herzog è stato così da lui utilizzato, nell’ultima frenetica settimana, per trasmettere un messaggio di paura, attraverso una inesausta serie di interviste e apparizioni televisive: il ritorno al potere della sinistra era imminente, Gerusalemme era in pericolo, il pericolo atomico iraniano incombeva su Israele, solo lui poteva difendere e rafforzare gli insediamenti e impedire la formazione di uno Stato palestinese (rinnegando così il suo discorso del 2009 a Bar Ilan), solo lui poteva far fronte al complotto internazionale guidato da Obama in combutta con l’Europa. Gli elettori di destra dovevano riscuotersi, mentre gli arabi israeliani andavano a votare in massa sui bus organizzati dalle sinistre. Così il leader israeliano, cui venivano attribuiti nelle ultime previsioni 21 seggi, riusciva a balzare nel voto reale a 30, sui 120 totali della Knesset.

La vittoria di Netanyahu non ha significato uno spostamento a destra dell’elettorato, ma solo una cannibalizzazione delle formazioni minori di quell’area, ed in particolare di Abbayit Yeudi, il partito espressione dei coloni, guidato da Naftali Bennet, crollato da 12 a 8 seggi, per non parlare di Yahad, la formazione di estrema desta nata da una scissione dal partito religioso sefardita Shas, che non è riuscita a superare il quorum.

L’Unione sionista, guidata dal laburista Isaac Herzog e da Tzipi Livni, ha ottenuto certo un risultato importante con i suoi 24 seggi, quanto gli veniva attribuito dai sondaggi, ma non si è mostrata in grado di contrastare la rimonta finale dell’avversario, mancando il bersaglio grosso del cambio di governo. Ha influito in maniera determinante una carenza di leadership, aggravata dall’accordo di rotazione tra Herzog e la Livni alla testa del governo, accantonato dalla Livni solo l’ultimo giorno prima del voto. Ma ha contribuito altresì l’incapacità tradizionale della sinistra israeliana di rivolgersi ai ceti più disagiati della popolazione, per la scelta di un messaggio troppo elitario e distante, anche se lo sforzo di mettere in primo piano le problematiche economiche e sociali è stato continuo e attento. Lo stesso slogan conduttore della campagna delle sinistre, “Tutti eccetto Bibi”, è stata espressione di una incapacità di esprimere una proposta alternativa positiva.

Una importante novità è rappresentata dall’affermazione della “Lista unita” dei partiti arabi, che ha ottenuto 14 seggi, e rappresenta ormai la terza forza del paese. Bisognerà verificare se questa coalizione riuscirà a restare unita e a esprimere una proposta politica positiva e incisiva, promuovendo gli interessi di questa importante minoranza nazionale che rappresenta il 20% della popolazione.

I due partiti religiosi, invece, appaiono ridimensionati, raggiungendo insieme 13 seggi.

Il Presidente della Repubblica, Reuven Rivlin spingerà ora per la formazione di un Governo di Unità nazionale tra Netanyahu e Herzog, che appare però di difficile realizzazione. Herzog ha dichiarato che l’unica strada realistica è restare all’opposizione e fare l’opposizione, e pare improbabile che cambi posizione anche se si è rifiutato di escluderlo. E d’altra parte è difficile che possa mettere assieme una propria coalizione che unisca la Lista araba ai partiti di centro, o l’ultra-laico Yesh Atid ai partiti religiosi.
Netanyahu avrà invece molte probabilità di riuscire a formare una maggioranza con la destra e i partiti religiosi, ma per riuscirci dovrà allargarla al nuovo partito di centro Kulanu, guidato da Moshe Kahlon, proveniente dal Likud, che con i suoi 10 seggi rappresenta oggi l’ago della bilancia e certo vorrà farlo pesare.

E’ comunque quasi sicuro che Netanyahu riesca a ottenere il suo quarto mandato alla testa del paese. La prima emergenza che si troverà ad affrontare, assieme al crescente disagio economico e sociale di un paese sempre più lacerato e incerto, è l’isolamento internazionale di Israele, accresciuto dalle sue sortite elettoralistiche degli ultimi giorni.

La tregua imposta dagli Usa nei mesi precedenti le elezioni, per non fornire alibi a Netanyahu, è oramai terminata. Ora i nodi verranno al pettine: i rapporti deteriorati con Obama, dopo il suo controverso intervento di fronte alle Camere riunite del Congresso USA, il procedere dei negoziati con l’Iran, la pressione accresciuta da parte dell’Europa perché il negoziato israelo-palestinese riprenda il suo corso, la rinnovata iniziativa palestinese presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja.

Si parla con sempre maggiore insistenza di una proposta europea per una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che detti le linee per porre termine al conflitto israelo-palestinese.

E non è escluso che questa volta gli USA possano rinunciare ad esercitare il loro diritto di veto.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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