L’Editoriale

Nuovo governo di unità palestinese. Boomerang Netanyahu

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 5 giugno 2014

È impressionante vedere la rapidità e la determinazione con cui la Comunità internazionale, dagli Stati Uniti alla UE, dall’ONU alla Russia, alla stessa Cina, ha accolto il nuovo Governo di Unità Palestinese sostenuto da Fatah e Hamas, dichiarandosi pronta a collaborare con esso e a proseguire nella politica degli aiuti fin qui concessi.

Ben diverso fu l’atteggiamento assunto verso il precedente tentativo di governo di Unità Nazionale costituito nel marzo 2007, dopo il primo accordo della Mecca tra Fatah e Hamas. Quel governo finì per crollare pochi mesi dopo, a giugno, stretto nella morsa delle sanzioni e dell’isolamento internazionale e minato dai dissidi interni tra le due formazioni, che portarono al colpo militare di Hamas a Gaza.

Ha influito certamente, nel diverso atteggiamento internazionale, la composizione della compagine appena insediatasi, costituita da tecnocrati slegati dai partiti, quasi una fotocopia di quello uscente, a partire dal Primo Ministro, ai due Vice Primi ministri, al Ministro delle Finanze a quello degli Esteri. Nessuno dei ministri – ha sottolineato il Segretario di Stato John Kerry – appartiene a Hamas.

Il profondo disappunto espresso da Netanyahu verso la scelta USA non è servito dunque che ad indurre gli esponenti della Amministrazione americana a ribadire la loro scelta, ai massimi livelli, rendendola ancora più significativa.

Alla base della svolta che si è registrata vi è il fallimento del tentativo di mediazione condotto per nove mesi da Kerry, terminato senza risultati alla fine di aprile. Anche se sono stati attenti ad attribuire le responsabilità ad entrambe le parti, è evidente che gli Stati Uniti danno le maggiori colpe del fallimento ad Israele.

L’intervista concessa sia pure a titolo anonimo dal Vice di Kerry, Martin Indyk, al grande giornalista Nahum Barnea, sul quotidiano israeliano Yediot Ahronot, indicava chiaramente nella continua espansione degli insediamenti israeliani la causa primaria dell’insuccesso.

Ma era stato lo stesso Obama, in una importante intervista concessa a Jeffrey Goldberg nel marzo scorso, alla vigilia del suo ultimo incontro con il Premier israeliano, a sottolineare l’impraticabilità per Israele, se voleva mantenere la sua democrazia, della scelta di continuare ad occupare i Territori Palestinesi e di sviluppare la politica degli insediamenti, ed il rischio di un crescente isolamento internazionale del paese.
“La condanna della Comunità internazionale – aggiungeva – può tradursi in una mancanza di collaborazione quando si arriva a interessi chiave nella sicurezza. Ciò significa una ridotta capacità di influenza per noi, gli Stati Uniti, su questioni che sono di interesse essenziale per Israele. Si può sopravvivere, ma non è preferibile.” Forse una larvata allusione agli atteggiamenti che gli USA potrebbero tenere in futuro in sede di Consiglio di Sicurezza, ove forse il tradizionale veto sulle questioni sgradite a Israele, o a una possibile nuova Risoluzione sul conflitto, sarà d’ora in poi meno scontato.

Gli Stati Uniti affettano una scelta di benigna negligenza verso la questione, al punto che nell’ultimo discorso tenuto da Obama a West Point, sulla politica internazionale del suo paese, nessuna menzione è stata fatta del problema israelo-palestinese, anche se in seguito non sono mancate le dichiarazioni sul permanente interesse degli USA per la sua soluzione. Siamo tuttavia di fronte ad una nuova tappa della divaricazione tra USA e Israele, anche se nessuno dei due è interessato a sottolinearne la portata.

Se Netanyahu poteva pensare di aver risolto i suoi problemi diplomatici e garantito l’unità del suo Governo, con la fine dell’iniziativa Kerry, forse sta oggi accorgendosi che i veri mal di testa cominciano adesso.
Non è un caso che, al di là delle proteste e delle condanne, lo stesso Governo israeliano abbia assunto sostanzialmente una posizione di attesa, autorizzando il Primo Ministro ad assumere misure punitive verso il nuovo governo, ma senza adottarne per il momento alcuna. Si è anzi ribadito che la collaborazione tra i due sistemi di sicurezza, essenziale per garantire la tranquillità israeliana, continuerà anche in futuro. Le posizioni più estreme, come quella del Ministro dell’Economia Naftali Bennet, che proponeva di annettere per ritorsione tutta l’area C, sono rimaste isolate.

Punto di contesa, annunciato, è l’intenzione israeliana di impedire la tenuta di elezioni, preannunciate entro l’anno, a Gerusalemme Est, se vi sarà la partecipazione di Hamas, il che ha già consentito al nuovo Governo palestinese di lanciare una campagna internazionale perché invece tali elezioni siano consentite.
Va detto, per chiarezza, che è tutt’altro che scontato che i tempi siano così rapidi.

Questo è un governo destinato a gestire l’ordinaria amministrazione e a preparare le elezioni, ma in Palestina i tempi non sono mai certi. Restano divisi i due apparati di sicurezza palestinesi, a Gaza e in Cisgiordania, e divise le due amministrazioni. Si tratterà di un processo lungo e complesso. Ed ancora più difficile sarà il processo di riforma dell’OLP, che secondo gli accordi dovrebbe aprirsi all’ingresso di Hamas e di altri gruppi, come lo Jihad islamico. Un processo che Fatah non ha certo fretta di avviare. Ma una pagina nuova si sta aprendo, le cui conseguenze sul piano locale, regionale e internazionale sono tutte da verificare.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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