L’Editoriale

Israele Palestina. Il vuoto e la morte

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 3 luglio 2014

Lo sgomento e il dolore ci attanagliano di fronte all’orribile gara di morte scatenata dal rapimento e dall’assassinio dei tre giovani israeliani della colonia ortodossa di Nof Ayalon, in Cisgiordania, cui ha fatto seguito quella del giovane palestinese, trovato carbonizzato vicino a Gerusalemme.
Quando la furia si scatena contro giovani indifesi, il processo di disumanizzazione del conflitto non conosce più limiti.
Alla condanna e alla umana solidarietà verso le famiglie delle vittime, deve tuttavia fare seguito una analisi lucida e consapevole, una riflessione su cosa sta accadendo e dove si rischia di andare.
Tutto questo non accade per caso. Vi sono forze che spingono coscientemente verso una ulteriore escalation del conflitto, perché sia cancellato quel tanto di cooperazione, tra Israele e Autorità Palestinese, che ancora resta almeno in materia di sicurezza, ed anche perché lo stesso processo di ricomposizione interna palestinese venga bloccato.
Questo avviene nel vuoto determinato dal fallimento dell’iniziativa di John Kerry, il Segretario di Stato USA che in nove mesi non è riuscito ad arrivare all’accordo tra Netanyahu e Mahmoud Abbas, ed ha levato le tende, lasciando le parti ad arrangiarsi da sole.
Se qualcuno riteneva che fosse possibile un puro ritorno allo status quo, business as usual, Israele finalmente in pace con i suoi insediamenti, i palestinesi intenti a chiedere l’adesione a nuovi trattati internazionali e a gestire il processo di ricomposizione con Hamas, ebbene si è sbagliato. Lo status quo non regge, non è in condizione di garantire la stabilità, lascia il campo agli spoiler che il vuoto sanno bene come riempirlo.
La prima cosa, oggi, è bloccare la deriva della violenza. Questo non significa che Israele non ricerchi gli assassini che sono al lavoro, tra i palestinesi e dentro l’estrema destra ebraica, senza adottare una politica di due pesi e due misure.
E’ stato importante che i due leader, Mahmoud Abbas e Netanyahu, abbiano adottato una linea di sostanziale convergenza, collaborazione della sicurezza e contenimento della situazione entro limiti non esplosivi.
Ma non si può prendere una intera popolazione in ostaggio, come responsabile della turpitudine di singoli o gruppi che scelgono la via dell’abiezione.
Hamas si trova oggi in una posizione estremamente difficile. È probabile che l’assassinio dei tre giovani israeliani non sia stato pianificato dalla sua leadership, ma da gruppi o clan della Cisgiordania, legati a Hamas ma abituati ad agire in modo autonomo. Quando ad agire non siano stati anche gruppi dell’estremismo jiadista. E’ probabile altresì che quell’azione orribile fosse rivolta non solo contro Israele, ma anche contro lo stesso accordo di unità interpalestinese, che settori dell’ala militare di Hamas sopportano male.
La situazione di Hamas va posta dentro ad un più ampio contesto regionale, dall’Iraq alla Siria alla stessa Gaza, entro cui le forze qaediste e jiadiste rischiano di prevalere sulle componenti sunnite più tradizionali, di cui Hamas è parte.
Ma la leadership del gruppo islamico non ha esitato ad appoggiare quell’azione, esaltandola, per avvantaggiarsene o comunque per non essere scavalcata.
E’ in questo contesto che si può meglio comprendere il sempre più esteso lancio di razzi e missili da Gaza, che per secondo gli stessi servizi israeliani non sono organizzati da Hamas ma da altri gruppi, ma che Hamas esita e reprimere come invece in passato ha dimostrato di saper fare.
Ciò rischia di innescare una operazione israeliana su vasta scala, simile a quelle degli anni scorsi, come non cessa di chiedere la estrema destra israeliana dentro e fuori il governo.
Queste pressione dell’estrema destra israeliana ha alimentato coscientemente un clima di tensione, entro cui l’azione terroristica che ha colpito il giovane palestinese ha trovato un fertile brodo di cultura.
In un contesto così esplosivo, la Comunità internazionale e in particolare l’Europa, ora che gli Stati Uniti si sono fatti più lontani, devono agire su un doppio registro: innanzi tutto intervenendo con tutta la sua forza per incanalare la crisi e impedire che essa si espanda e diventi incontrollabile.
Ma poi devono agire per riempire quel vuoto, che Kerry ha lasciato dietro di sé, ripartendo proprio da quel che Kerry aveva iniziato a fare: l’individuazione di un framework di insieme per la soluzione del conflitto, individuandone i parametri essenziali e cominciando a pensare ad una possibile prima discussione in sede di Consiglio di sicurezza dell’ONU. Definendo contemporaneamente sistemi di pressione, negativi e positivi, per sbloccare l’immobilismo delle parti in conflitto.
Un compito non secondario per il semestre italiano di Presidenza dell’Unione Europea, che l’Italia ha avviato proprio in questi giorni.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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