L’Editoriale

Egitto. Il pendolo di Morsi tra i militari e la piazza

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:2 luglio 2012

Il doppio giuramento del neoeletto Presidente egiziano, Mohamed Morsi, eseguito prima davanti alla folla di piazza Tahir e solo il giorno dopo davanti all’Alta Corte costituzionale, esprime bene l’ambivalenza e la difficoltà del compito cui deve fare fronte il movimento musulmano nel paese. Morsi si è comunque impegnato a tutelare la democrazia e il pluralismo e a rispettare le minoranze, ed in particolare i Copti, evitando di fare dell’Egitto uno Stato confessionale. La sua vittoria rappresenta senza dubbio uno spartiacque non solo per l’Egitto, ma per l’intero scenario mediorientale. I Fratelli musulmani hanno dovuto affrontare difficoltà crescenti, nel lungo braccio di ferro con l’esercito, che non vuole rinunciare al suo potere e ai suoi privilegi. Hanno visto invalidare da una corte compiacente il loro candidato principale, il grande imprenditore Khairat al – Shater, che è anche il loro Vice-presidente (Morsi, il suo sostituto, veniva chiamato “La ruota di scorta”); hanno dovuto affrontare la dissidenza dell’islamico dissidente Fotouh, che ha raccolto nel primo turno il 17,5% dei voti; hanno dovuto fronteggiare lo sbarramento di provvedimenti presi dal Consiglio militare egiziano, sia direttamente che attraverso sentenze compiacenti di corti giudiziarie asservite: provvedimenti che hanno portato allo scioglimento del Parlamento, a larga maggioranza controllato dalle formazioni islamiche; all’avocazione al Consiglio stesso dei poteri legislativi e di quelli attinenti la sicurezza, la difesa e le finanze, e alla rivendicazione del potere di determinare le linee guida su cui dovrà essere scritta la nuova costituzione.

Il rischio maggiore, che venisse proclamato vincitore il candidato sconfitto, quello Shafiq che era stato l’ultimo Premier di Mubarak, è stato evitato grazie alle pressioni convergenti degli Stati Uniti e dei maggiori Stati europei, e di Piazza Tahir, che è tornata a riempirsi di folle che non si vedevano più da mesi.

Qui c’è una prima chiave di lettura importante: i Fratelli non si sono limitati ad opporsi ai diktat dei militari per via giudiziaria, rifiutandosi di riconoscere la validità delle loro decisioni; ma da un lato hanno tenuta aperta una via di contatto e di trattativa con il Consiglio militare, fornendo garanzie e rassicurazioni; dall’altro hanno fatto ricorso a tutte le opposizioni, ricostituendo quella unità di lotta che era stato il lievito della Primavera araba.

Essi, in questo anno e mezzo, hanno mantenuto questo atteggiamento alterno, non esitando a ritirarsi dalle piazze lasciando isolato il movimento, se questo serviva a accreditarsi come partito d’ordine e come tranquilla forza di governo, ed anche a portare avanti la trattativa con il Consiglio militare per una spartizione del potere, accettabile per entrambi i contendenti; ma sono tornati a rivolgersi a tutte le forze rivoluzionarie, se le pretese dei militari si facevano troppo esose, come è accaduto in questi ultimi tempi.

Così, tra il primo e il secondo turno delle presidenziali si sono infittiti gli incontri con i candidati sconfitti (che però tutti insieme avevano sfiorato la maggioranza assoluta dei voti, con il 49,3%): in particolare con Fotouh, e con il neo-nasseriano Sabahi. Si parla di una possibile loro presenza nel nuovo governo, così come del Premio Nobel El-Baradei. Così come si ipotizza una possibile Vice-presidenza copta, per rassicurare questa minoranza, preoccupata per l’onda islamica che sta montando nel paese, una minoranza che ha votato in massa per Shafik.

Questa sarà una prima importante cartina di tornasole: se alla prova del governo la scelta sarà di tornare ad una concezione integralista ed esclusiva del potere o se la politica di larghe alleanze con tutte le componenti del movimento sarà perseguita anche dopo la vittoria. Il tutto a partire dalla situazione economica che va facendosi esplosiva, per il crollo verticale di tutti i principali settori economici a seguito delle precarie condizioni politiche e di sicurezza, a cominciare dal vitale settore turistico, in caduta libera.

L’altra questione, quella della convivenza con la Giunta militare, sarà ancora più ardua, perché qui gli integralismi a confronto sono due: quello della nuova egemonia islamica che si sta affermando, e quella dei militari, abituati ad esercitare un potere assoluto e senza controllo, e che quel potere ora si trovano a doverlo almeno spartire.

La terza componente, laica e democratica o anche islamica pluralista, potrà giocare in questo equilibrio così precario un ruolo essenziale, se saprà uscire da concezioni minoritarie e superare la sua frammentazione.

Fino a dicembre, quando dovrebbero tenersi le nuove elezioni legislative (se lo scioglimento del parlamento verrà confermato), assisteremo sicuramente a un percorso a ostacoli, in cui ogni sorpresa è possibile.

Sul piano regionale, la vittoria di Morsi conferma le preoccupazioni israeliane, che vedono confermarsi al potere in Egitto quei Fratelli musulmani da cui ha preso origine Hamas, il movimento islamico che si è impossessato di Gaza.

I Fratelli musulmani hanno ripetutamente dichiarato di voler rispettare il Trattato di pace di Camp David, anche per rassicurare gli USA, e conservare il loro aiuto militare, che ammonta a 1,3 miliardi di dollari all’anno. Ma certo i tempi dell’alleanza ferrea, anche se non dichiarata, con Mubarak, sono passati, e gli israeliani hanno ancora in mente il ricordo del loro ambasciatore, costretto nei mesi scorsi a scappare di notte sotto l’assalto dei dimostranti, guidati dagli attivisti salafiti. E le recenti dichiarazioni attribuite da un’agenzia iraniana a Morsi, su una possibile revisione del trattato, poi smentite, non li hanno certo rassicurati. D’altro canto, lo stallo negoziale con i palestinesi impedisce agli israeliani di utilizzare gli sviluppi in corso nel mondo arabo in chiave anti iraniana.

La vittoria di Morsi, infatti, salda il triangolo sunnita, che dal Marocco arriva alla Turchia e all’Arabia Saudita, e che sta confrontandosi a tutto campo con le pretese espansionistiche sciite, guidate dall’Iran. La Siria è il terreno su cui oggi sta sviluppandosi questa sfida, e l’incidente dell’aereo turco abbattuto è l’ultima scintilla di una tensione crescente.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

Leggi tutti gli EDITORIALI