L’Editoriale

Libia. Il giorno dopo del giorno dopo

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 28 marzo 2011

Quando si inizia una azione militare, è necessario pensare non solo agli effetti immediati, ma anche al giorno dopo, e al giorno dopo del giorno dopo.
E’ questa consapevolezza che pare ancora mancare nella “coalizione dei volenterosi”, che si è mossa per bloccare l’attacco delle forze fedeli a Gheddafi contro gli insorti, evitando la caduta della loro ultima roccaforte, Bengasi.

Il mandato del Consiglio di Sicurezza dell’ONU prevede una vasta gamma di azioni belliche a tutela delle popolazioni civili interessate, oltre l’instaurazione di una no fly zone, rendendo possibili attacchi contro convogli e postazioni a terra e l’imposizione di un blocco navale per assicurare l’embargo delle armi. Esso tuttavia pare essere in grado di arrestare l’avanzata delle forze leali al colonnello (che paiono ancora in grado di portare attacchi letali alle città ribelli), ma non di farle arretrare “liberando” la parte ancora sotto il controllo del governo ufficiale.

Sulla base della situazione attuale, quello che si può prevedere è il determinarsi di un prolungato status quo, con possibili variazioni nei confini tra le zone rispettivamente controllate, che può preludere o a un intervento di lunga durata, o ad una spartizione della Libia tra Tripolitania e Cirenaica.
Il controllo di Tripoli appare ancora appannaggio di Gheddafi: senza un intervento di terra, escluso a chiare lettere dalla stessa risoluzione dell’ONU, pare difficile prevedere, salvo miracoli, una sua fuga o una sua caduta. Come è stato più volte affermato, resta una dicotomia irrisolta tra l’obbiettivo enunciato da Obama, “Gheddafi must go” e i “terms of reference” della risoluzione: anche se il presidente USA ha dichiarato in questi giorni che la cacciata di Gheddafi resta un obbiettivo a lungo termine degli USA, al di là dei tempi e dei limiti del mandato ONU.

D’altra parte, non corrisponde alla realtà la descrizione di un “Gheddafi solo contro il popolo libico”. Intorno a Gheddafi resta una parte della popolazione, soprattutto nell’area della capitale, e a lui sono fedeli diverse tribù, mentre altre tribù sono schierate con i ribelli, e altre sono in vendita al miglior offerente. Certo, ci sono anche i mercenari comprati col denaro accumulato in questi anni, ma questa è solo una parte della sua forza. Siamo in presenza di una vera e propria guerra civile.

La Libia, come le descrive in un suo magistrale articolo Thomas L. Friedman sul New York Times, è uno Stato sui generis, si tratta di “Tribù con bandiera”, una realtà che non possiede una vera ossatura e una tradizione statuale, e che può richiedere un lungo e impegnativo lavoro di institution building, analogo a quanto si è fatto in Iraq, o in Afghanistan. Sono disposti a questo, i volenterosi?

Pare perciò utile porsi un obiettivo più concreto e limitato, appena conseguito il primo risultato di mettere al sicuro la popolazione minacciata dalle forze lealiste: riaprire canali di dialogo e di compromesso, favorire l’avvio di una transizione concordata che garantisca una fuoriuscita dalla crisi ad un prezzo di sangue non troppo elevato, con la creazione di un governo transitorio di unione nazionale e il mantenimento della stessa unità della Libia, al di là dei pruriti parigini sulle zone costiere ricche di petrolio. Su questo terreno, l’Italia può recuperare uno spazio dopo le iniziali difficoltà “di comunicazione”, ricercando anche un rapporto con la Germania che aiuti a ricomporre in qualche forma l’unità europea attualmente lacerata.

Più in generale, il modo disordinato con cui è stata gestita questa crisi risente di un approccio più complessivo, di breve termine, che ha caratterizzato l’iniziativa dell’occidente rispetto all’onda lunga della rivoluzione democratica tunisina e egiziana.
Dopo la caduta di Mubarak, i punti fermi su cui si è basato l’ordine regionale in Medio Oriente sono tutti in discussione, dal siriano Assad, al saudita Abdullah, al re giordano Abdullah II, agli altri capi di stato in tutta l’area: nessuno fra essi è sicuro di essere ancora al suo posto nei prossimi anni.
Probabilmente era giusto e inevitabile appoggiare quella che il grande islamologo Olivier Roy ha chiamato “la rivoluzione postislamista”, ma è necessario comprendere che la stabilità instabile su cui si è retto il Medio Oriente in questi decenni non esiste più, e che il vuoto rischia di essere riempito dalle forze che tentano le peggiori scorciatoie.
Lo dimostra lo stesso rilancio della spirale terroristica in Israele, e non solo da parte di Hamas (che ha anche ricominciato a sparare razzi e missili sulla parte meridionale di Israele), ma anche dai miliziani dei “Martiri di Al Aqsa”, legati a Fatah.
In questo panorama sconvolto si erge la solitudine angosciosa di Israele, rinserrato nella sua paralisi diplomatica e nel suo fortino assediato, incapace di avanzare una proposta credibile e soprattutto di farsi ascoltare e credere. Intanto, dal Libano giungono le notizie del nuovo Governo insediato su indicazione di Hezbollah, e l’opzione siriana vagheggiata da Barak pare svanire sotto i colpi della crescente contestazione che rende fragile la leadership di quel paese.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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