L’Editoriale

Bibi, la vittoria di Pirro

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 27 settembre 2011

Ora che il confronto all’Assemblea Generale dell’ONU ha avuto termine, e la richiesta di riconoscimento dello Stato palestinese come membro permanente dell’organizzazione ha iniziato il suo incerto iter al Consiglio di Sicurezza, si può dare una prima valutazione sugli esiti e sulle prospettive future.

Il discorso del Presidente palestinese Mahmoud Abbas è stato rivolto essenzialmente all’opinione pubblica palestinese e araba per tutta la terminologia usata (naqba, pulizia etnica, apartheid etc.), pur riconfermando nettamente tutte le scelte di pace compiute in passato. Esso è stato interrotto da ripetute standing ovation, ed egli al suo ritorno è stato accolto come un eroe.

Il rischio che egli si è assunto, ignorando la richiesta USA di lasciar cadere la domanda di riconoscimento, non è lieve: il positivo rapporto con Obama, costruito nei primi anni della sua presidenza, è incrinato, e vi è anche un possibile taglio dei fondi americani, già votato dalle due Camere. Il Presidente statunitense, nel maggio scorso, aveva compiuto un passo importante per i palestinesi, per cui forse si è sentito insufficientemente apprezzato: aveva proposto che il negoziato avesse come parametro “i confini precedenti il 1967, con possibili scambi territoriali concordati”. Una posizione che il leader israeliano aveva respinto, definendo quei confini del ’67 “indifendibili”.

Da parte palestinese è prevalsa invece la sfiducia, nel vedere il leader della maggior potenza mondiale incapace di reagire ai rifiuti di Netanyahu, che è riuscito a ingabbiarlo nella solida rete dei suoi contatti e delle maggioranze trasversali su cui è in grado di far leva in Congresso e nel paese, nella prospettiva oramai ravvicinata delle future elezioni presidenziali. Quella che Mahmoud Abbas intravede, per i prossimi diciotto mesi, è una lunga traversata nel deserto, in cui ciò che si può fare è consolidare e allargare il sostegno internazionale alla rivendicazione nazionale palestinese e rinsaldare il fronte interno nei confronti di Hamas, senza spezzare il faticoso processo di costruzione di uno Stato palestinese dal basso, sviluppato dal Premier palestinese Fayyad.

Quanto a Netanyahu, anch’egli si è rivolto alla sua opinione pubblica, con un discorso ispirato alla lunga storia degli ebrei, a quanto hanno subito, ai rischi che corrono oggi e alle garanzie di sicurezza che Israele deve chiedere. Il suo coraggio nel porsi davanti al mondo, esprimendo le inquietudini e le esigenze di Israele, è stato apprezzato nella sua terra e i sondaggi lo danno in forte ripresa, dopo il declino subito dopo le dimostrazioni a sfondo sociale dei mesi scorsi. D’altronde, fino alle elezioni Obama lo lascerà tranquillo, e non è escluso che egli colga questa opportunità per convocare elezioni anticipate.

Quanto al tentativo di mediazione del Quartetto (USA, Russia, UE, ONU), giunto all’ultimo momento, non pare destinato ad andare lontano: si fa un riferimento al discorso di Obama di maggio, senza citarne il contenuto, e si propone che entro un mese le due parti si incontrino, entro tre avanzino proposte complessive, entro sei ottengano risultati sostanziali e entro dodici mesi raggiungano l’accordo di pace. Ancora una volta, si scambia il calendario per il contenuto. In realtà, i quattro non sono riusciti a mettersi d’accordo, con gli Stati Uniti che hanno cercato invano di imporre un riferimento al riconoscimento di Israele come Stato ebraico, per bilanciare quello ai confini del ’67, proposta che Mosca non ha accolto.

D’altronde, è improbabile che i palestinesi tornino al negoziato senza una qualche forma di blocco degli insediamenti, così come è difficile che gli israeliani facciano cadere lo sbarramento sulla questione del riconoscimento come Stato ebraico.

Se sul breve periodo il leader israeliano pare aver colto una affermazione tattica, nel medio periodo le conseguenze del totale stallo diplomatico possono essere diverse: si aggrava di giorno in giorno la frattura con la Turchia, che arriva a minacciare l’invio di navi e sottomarini per presidiare i giacimenti di gas nel Mediterraneo; la crisi con l’Egitto, dopo la precipitosa fuga notturna dal Cairo dell’Ambasciatore di Gerusalemme, non è sanata, e le prossime elezioni potrebbero portare al potere i Fratelli Musulmani; con la Giordania i contatti al vertice sono congelati da mesi; in Libano il governo è oramai in larga parte controllato da Hezbollah; la Siria è scossa da un sommovimento che resiste alla repressione, e di cui è protagonista la minoranza sunnita, largamente influenzata ancora dai Fratelli Musulmani.

Le primavere arabe, che in un primo momento si erano concentrate sui problemi di democrazia interna senza scagliarsi contro la bandiera israeliana, in questa fase, in cui le trasformazioni interne segnano il passo, hanno riscoperto la battaglia per la Palestina e contro il regime sionista come elemento unificante e mobilitante, anche a causa del totale blocco del processo di pace.

L’Iran, in questo contesto, si sente ai margini dall’attenzione internazionale e procede indisturbato con il suo programma nucleare e con il processo di stabilizzazione del regime.

Quella di Netanyahu, concentrata sull’oggi e senza la capacità di guardare oltre l’orizzonte, potrebbe presto rivelarsi una vittoria di Pirro.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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