L’Editoriale 

Medio Oriente. Il pianoforte di Obama

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 15 maggio 2009

L’incontro del prossimo 18 maggio tra Obama e Netanyahu sarà certamente un momento di verità. Il premier israeliano conosce le grandi linee della posizione statunitense, e ha dichiarato di voler dedicare queste settimane all’elaborazione di nuove linee di proposta politica per il negoziato, dato che i precedenti approcci hanno fatto fallimento.

Si sa che egli intende puntare sulla reciprocità delle concessioni, e dare priorità agli aspetti economici dei rapporti con i palestinesi. Ma questo non gli eviterà di dare risposte sugli aspetti più propriamente politici su cui insiste il presidente USA, quelli della accettazione di uno Stato palestinese e del principio “Due stati Due popoli”.

In realtà, non si riesce a evitare l’impressione che la sua resistenza a pronunciare queste fatidiche parole sia stata poco più che un diversivo per prender tempo, e fare un po’ di polverone rispetto ai nodi reali sul tappeto. Il nuovo Governo israeliano ha già dichiarato di accettare la Road Map, che è precisamente una mappa “verso una soluzione permanente a Due Stati del conflitto israelo-palestinese”, e quindi non vi sarebbe molto da aggiungere. Il problema è la sostanza, quali confini, Gerusalemme, come risolvere il problema dei rifugiati, i nodi venuti al pettine con la conferenza di Annapolis, ai cui esiti non a caso il Ministro degli Esteri Lieberman dichiara di non sentirsi vincolato.

Ma anche sul terreno delle “Misure per costruire la fiducia” su cui era imperniata la prima parte della Road Map, Israele non si presenta con le carte in regola: mentre non si può negare che Abu Mazen e l’ANP abbiano fatto passi concreti sul terreno della sicurezza, anche attraverso una rinnovata e stretta collaborazione con i servizi di sicurezza israeliani, al contrario il congelamento degli insediamenti, la rimozione degli avamposti illegali, la rimozione dei blocchi stradali interni alla Cisgiordania e la facilitazione degli accessi ai valichi con Israele, per quanto previsti espressamente sono rimasti sulla carta, e la realtà si è spesso sviluppata in senso esattamente contrario. Su questi aspetti, Lieberman ha già annunciato una disponibilità maggiore del passato, e Netanyahu potrebbe fare delle aperture.

Discorso diverso, naturalmente, se si guarda a Gaza: ma la situazione laggiù può difficilmente essere imputata a Abu Mazen, che ne è al contrario la vittima. E proprio la recente guerra condotta da Israele ha dimostrato quanto sia difficile una soluzione militare del problema, e come l’unica strada percorribile sia quella del consolidamento della tregua, della graduale riapertura dei valichi, della ricostituzione di un governo di unità interpalestinese che veda la presenza delle due grandi forze palestinesi, Fatah e Hamas, come auspicato dalla risoluzione 1860 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Un segnale importante, in questo senso, è stata la richiesta della Amministrazione Obama al Congresso USA di eliminare il veto al finanziamento di governi palestinesi che includano Hamas.

E’ questa, d’altronde, l’unica via praticabile per ricreare un’unità territoriale palestinese, anche se non è detto che questo sia un obbiettivo per gli israeliani. Non si può ignorare, peraltro, come vi sia anche chi comincia a parlare di Federazione tra una Cisgiordania a guida Fatah e una Striscia di Gaza a guida Hamas, o rilancia l’idea di Stato unico con la Giordania.

Altri terreni di possibile convergenza tra i due leader, o almeno di approfondimento non pregiudizialmente negativo, sui quali d’altronde la nuova Amministrazione USA sta sviluppando un forte lavoro, sono il rilancio del negoziato con la Siria, per cui preme lo stesso Ministro della Difesa israeliano Barak, e la chiusura delle residue dispute con il Libano, relative ai pochi chilometri delle fattorie di Sheba’a, rivendicate anche dalla Siria,  e al già annunciato ritiro dal villaggio diviso in due di Ghajar.

Il punto essenziale, per il Premier israeliano, è comprendere che gli Usa oggi non sono meno amici di Israele, ma che questa amicizia è meno esclusiva. Obama sa che per recuperare credibilità in Medio Oriente e in tutto il mondo mussulmano non si può suonare un solo tasto, e che sul pianoforte bisogna usare sia i tasti bianchi che quelli neri, per fare una buona musica, che sia intesa dall’intero mondo islamico a cui il presidente vuole rivolgersi, isolando la componente terroristica e qaedista.

Quello che più colpisce è infatti la complessità e l’articolazione dei sui interventi, dalla Turchia al Pakistan all’Afghanistan, dall’Iraq all’Iran, dall’Egitto alla Giordania, dalla Siria al Libano allo stesso Israele.

Pare infondata l’accusa di cedevolezza che molti hanno avanzato verso la sua politica: il rinnovo delle sanzioni contro la Siria è stato motivato con parole molto nette, e il rifiuto di un possibile sviluppo armamento nucleare iraniano non ha lasciato spazio ad equivoci. Ma anche l’apertura negoziale si sviluppa con tutta la necessaria forza e credibilità, con il ripetuto invio di emissari di primo a livello a Damasco, e con la proposta all’Iran di una trattativa a tutto campo rilanciata dai 5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania). In realtà, tutti aspettano, a giugno,  l’esito delle prossime elezioni presidenziali in quel paese (e si spera che le aperture negoziali possano avere una influenza positiva su di esse). I nodi verranno al pettine solo in autunno.

Nel frattempo, diminuiscono gli spazi autonomi di iniziativa israeliana: In questi giorni il presidente ha inviato attraverso un suo alto rappresentante un messaggio assai preciso al premier israeliano, senza attendere neanche l’incontro dl prossimo lunedì, diffidandolo dall’intraprendere azioni di sorpresa contro i laboratori nucleari iraniani. Ancora più preoccupante, per gli israeliani, è l’auspicio recentemente rivolto da un rappresentante USA ad Israele, di aderire al Trattato di non proliferazione nucleare: Dimona per Natanz, è stato subito commentato: Dimona, la città sede del reattore nucleare israeliano e del relativo anche se non dichiarato programma atomico militare, per Natanz, la città iraniana dove è situato il più importante centro di arricchimento dell’uranio.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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