L’Editoriale

L’incognita Barghouti

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 27 novembre 2009

Si stanno facendo frenetiche le anticipazioni sul rilascio del caporale israeliano Shalit, rapito da Hamas nel 2006, in cambio di un alto numero di prigionieri palestinesi, anche macchiatisi di gravi atti di terrorismo. Tra i rilasciati, dovrebbe esserci anche Marwan Barghouti, il leader della seconda intifada condannato a cinque ergastoli.

Lo scambio ha subito in questi giorni una battuta di arresto, almeno fino a lunedì, alla conclusione della festa musulmana di Id al-Adha, e non è sicuro, perché già altre volte si è bloccato all’ultimo minuto. Ma è interessante riflettere sulle sue possibili conseguenze nella complicata bilancia strategica mediorientale.

Barghouti, prima di tutto. E’ il leader della cosiddetta “giovane generazione” e tra i primi eletti al Comitato Centrale nel recente congresso di Fatah. Può aspirare alla successione di Mahmud Abbas (Abu Mazen), e che ha già annunciato, se liberato, di voler concorrere per le future elezioni presidenziali, quando sarà possibile tenerle.

Egli ha sempre propugnato la necessità di un accordo con Israele, basato sulla soluzione “Due stati due popoli” e sulla costruzione di uno Stato palestinese entro i confini del ’67, con Gerusalemme Est come capitale. Ma ha sempre sostenuto la necessità di non puntare tutto solo sulla diplomazia, di affiancare al negoziato la lotta popolare, senza escludere quella militare, anche se in questa fase preferisce fare appello ad una resistenza di massa e pacifica.

Sul piano politico, quindi, egli è lontano da Hamas, ma sul terreno della lotta ha punti di convergenza e di possibile alleanza con l’organizzazione islamica. Egli ha d’altronde sempre sostenuto la necessità di una ricomposizione della frattura interpalestinese, ed è stato il promotore, nel maggio 2006, del “documento dei prigionieri”, insieme ad esponenti di Hamas e delle principali fazioni palestinesi in prigione come lui: un documento essenziale, le cui linee furono poi recepite nell’accordo della Mecca tra Fatah e Hamas, nel febbraio 2007, che diede vita al successivo Governo di unità nazionale, crollato dopo pochi mesi, a giugno, con il colpo militare di Hamas a Gaza.

Per Barghouti, quindi, la ricomposizione della unità interpalestinese è preliminare rispetto all’avvio delle trattative con Israele, perché solo così il negoziato sarà rimesso sulle gambe, e potrà essere reale, efficace e rispettato. Il leader palestinese è stato sempre un teorico della diplomazia dal basso, e non è un caso che anche in questi giorni appoggi la proposta del Premier palestinese Fayyad, di costruire  dal basso, in due anni, il futuro Stato palestinese. Ma egli è anche un realista, convinto che con il nemico si debba parlare, seriamente: fu lui a guidare la delegazione di Al Fatah al seminario riservato con il Likud, che chi scrive organizzò con il CIPMO a Milano, nel ’98, e consentì l’apertura di canali riservati tra Netanyahu e Arafat, per l’accordo di Wyie Plantation e il ritiro parziale da Hebron.

Ma quali saranno le conseguenze, se Barghouti sarà rilasciato ad Hamas, e non ad Abu Mazen, come tante volte richiesto dall’ANP (anche se non si sa, va detto, con quanta convinzione)? Quali spostamenti questo produrrà negli equilibri interni a Fatah, e nel rapporto di forza tra Hamas e Fatah? Perché Netanyahu e fa questa scelta, ignorando la richiesta di tanti leader e ministri israeliani, tra cui lo stesso Presidente della Knesset, Reuven Rivlin (molti di essi avevano partecipato all’incontro di Milano), di consegnare il prigioniero a Abu Mazen, per rafforzare Al Fatah e renderne possibile il rilancio?

D’altra parte, l’eventuale accordo tra Israele e Hamas non si limiterebbe al puro scambio di prigionieri, e dovrebbe contemplare altri aspetti, scritti o taciti, relativamente alla fine del blocco economico di Gaza e alla riapertura delle frontiere della Striscia, a cominciare da quella con l’Egitto. Di fatto, una stabilizzazione della tregua, ma anche del controllo di Hamas su Gaza, che indebolirebbe ulteriormente l’ANP. Tra le ragioni del rinvio, vi sarebbe quindi anche il tentativo egiziano di far rientrare Abu Mazen nella partita, assicurando un ritorno delle guardie di frontiera a lui fedeli  a controllare i valichi, sia pure con qualche presenza delle forze di Hamas a distanza ravvicinata.

Anche per questo si assiste ad un frenetico tentativo degli USA, volto a spingere Netanyahu a fare nuove concessioni al Presidente dell’ANP, che consentano la riapertura del negoziato israelo-palestinese, proprio mentre sceglie di rilanciare la trattativa per quanto indiretta con Hamas. E’ in questo quadro che si colloca la proposta israeliana di questi giorni, di congelare per 10 mesi gli insediamenti in Cisgiordania (escludendo Gerusalemme Est, le 3000 abitazioni già in costruzione o che abbiano già il permesso di costruzione, nonché gli edifici pubblici come sinagoghe, scuole etc.). Una proposta che è già stata ritenuta vecchia e insufficiente dalla leadership palestinese.

Se lo scambio dovesse andare a buon fine, è d’altronde probabile che potrebbe ripartire su nuove basi anche il negoziato interpalestinese, sulla base della proposta di accordo avanzata dagli egiziani, e finora respinta da Hamas. L’organizzazione islamica, che uscirebbe molto rafforzata dall’esito di quello scambio, e quindi dal risultato ottenuto con il rapimento Shalit, potrebbe più facilmente accettare di firmare l’intesa con Al Fatah, entro cui la voce di Marwan Barghouti, libero, tornerebbe ad avere un ruolo sempre più determinante.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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