L’Editoriale 

Arabi israeliani tra lealtà e identità

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:19 febbraio 2009

Vi è qualcosa di non detto, in tutta la discussione in corso in Israele sul problema degli arabi israeliani. Lieberman, il leader di Yisrael Beiteinu che ha ottenuto il più forte successo alle ultime elezioni arrivando ad essere il terzo partito del paese con 15 seggi, ne ha fatto uno dei temi centrali della sua campagna elettorale, con lo slogan “No citizenship without loyalty”, niente cittadinanza senza lealtà. Egli reclama una sorta di giuramento di fedeltà allo Stato ebraico da parte di questi cittadini che ebrei non sono; sostiene che tutti debbano fare il servizio militare, arabi e religiosi ortodossi compresi, che oggi ne sono esentati; propone lo scambio tra i territori israeliani più densamente popolati dagli arabi, come la Galilea e il cosiddetto Triangolo, con le aree della Cisgiordania ove sono stati costruiti i maggiori insediamenti ebraici. Questo anche per garantire il carattere ebraico di Israele, risolvendo così la sfida demografica che il più alto tasso di natalità della popolazione araba pone.

Ma le risposte finora date al leader della destra laica si sono rivelate insufficienti. Ci si limita ad affermare la necessità di assicurare pari diritti a tutti i cittadini, in nome della democrazia, superando le discriminazioni e le disuguaglianze di cui soffrono gli arabi, come unica strada possibile per assicurarne la lealtà allo stato. Ma come si può chiedere agli arabi israeliani di essere leali ad uno Stato ebraico che sostanzialmente misconosce la loro esistenza come minoranza?

La cosa più contraddittoria è che molti esponenti arabo-israeliani esitano a chiedere questo riconoscimento, perché temono così di aumentare la diffidenza della maggioranza ebraica e di danneggiare quindi la lotta per l’uguaglianza. Certo, la questione esiste. I comuni arabi hanno meno finanziamenti di quelli ebraici a parità di popolazione, e il mancato assolvimento del servizio militare crea una serie di svantaggi, nell’accesso ad esempio all’edilizia popolare, all’università, al pubblico impiego…

Il problema si è andato acuendo negli ultimi anni: il punto di crisi può essere individuato nella cruenta repressione delle manifestazioni dell’ottobre 2000, con l’esplodere della seconda intifada, quando 13 arabi israeliani vennero uccisi dal fuoco della polizia, facendo esplodere il crescente sentimento di angoscia, frustrazione e collettiva alienazione di quei cittadini rispetto allo Stato e alla maggioranza ebraica. Ma ancora in tempi recenti si sono verificati gravi incidenti, come i gravi scontri tra arabi e ebrei, verificatisi ad Acco durante la festa del Kippur dell’anno passato, o anche le tensioni registratesi in occasione delle ultime elezioni.

Come conseguenza, le posizioni delle organizzazioni più rappresentative di questa minoranza hanno avuto una forte radicalizzazione, arrivando a chiedere il superamento della stessa concezione fondativa di Israele in quanto Stato ebraico ed auspicando la creazione di uno Stato di tutti i cittadini, su basi di piena uguaglianza, senza distinzioni religiose o etniche. Ma ciò porterebbe alla fine dell’unico Stato ebraico esistente, e questo può essere difficilmente accettato dalla maggioranza ebraica del paese. Parallelamente, quegli avvenimenti hanno provocato una crescente sfiducia e diffidenza da parte di quella maggioranza, dando forza alle proposte e ai pronunciamenti antiarabi di Lieberman.

Il forte scontento dei palestinesi israeliani deriva in realtà da un coacervo di fattori: essi rappresentano il 20% della popolazione israeliana, e sono a tutti gli effetti una minoranza etnica, parte di una popolazione originaria preesistente alla stessa nascita dello Stato. Ad essi, in quanto individui,  è riconosciuta una uguaglianza teorica, lungi peraltro dall’essere assicurata. Ma non è riconosciuta una identità complessiva. Ciò è sicuramente una causa non secondaria nel rafforzamento, al loro interno, delle componenti più dure. La situazione ricorda, paradossalmente, quella degli ebrei all’epoca della Rivoluzione Francese: “tutti i diritti agli ebrei in quanto individui, nulla in quanto popolo”. Gli arabi israeliani – o per meglio dire i palestinesi israeliani come oramai scelgono di chiamarsi – sono, e si sentono, parte del popolo palestinese, e della sua storia tormentata.

Se il problema della loro esistenza, in uno Stato che si definisce ebraico, passa per il loro riconoscimento come minoranza etnica, tutelata da diritti collettivi, la loro aspirazione nazionale in quanto popolo può essere soddisfatta attraverso la creazione di uno Stato palestinese, fuori di Israele, a cui tuttavia essi possano guardare: così come gli ebrei della diaspora possono essere cittadini leali dei loro Paesi, e guardare a Israele come riferimento per le loro aspirazioni nazionali in quanto popolo. E’ questa l’unica soluzione intermedia percorribile, se si vogliono evitare improbabili tentativi di assimilazione forzosa, ancor più pericolose derive fondamentalistiche o l’affermarsi della proposta di uno Stato israeliano di tutti i cittadini, privo di caratteristiche ebraiche, se non di uno Stato unico binazionale su tutta la Palestina storica. La maggioranza ebraica e la sua leadership, tuttavia, sono ancora ostili a tale riconoscimento, perché temono che ciò possa costituire un indebolimento dello Stato e della sua unità.

Vi sono tuttavia esperienze nel mondo che dimostrano che questa è una via percorribile e funzionale. Mi riferisco al caso della minoranza tedesca in Alto Adige, che è riconosciuta collettivamente dallo Stato italiano come minoranza linguistica, non solo con uguali diritti rispetto agli altri italiani, ma con specifici diritti a loro tutela in quanto minoranza: un’ampia autonomia finanziaria, la proporzione nel pubblico impiego, l’uso della lingua, la gestione delle scuole. Un riconoscimento concordato con l’Austria, che di quella minoranza costituisce storicamente nazione di riferimento. Negli anni ’60 in Sud Tirolo ci furono bombe e attentati per chiedere la secessione, mentre oggi la situazione è calma. Italiani e tedeschi non si amano, ma convivono in pace. Nel maggio scorso una qualificata delegazione di esperti israeliani, arabi e ebrei, è venuta in Alto Adige, su iniziativa del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO) e su invito della Provincia di Bolzano, e ha concluso che lo studio di tale esperienza può essere di grande utilità anche per Israele.

Concludendo, se la maggioranza di quel paese vuole conservare il carattere di Stato ebraico dello Stato, l’unica via realistica pare quella di riconoscere e tutelare la sua minoranza araba in quanto tale e, insieme, di procedere speditamente sulla via della pace, accettando la creazione di uno Stato palestinese al suo fianco.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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