L’Editoriale 

Olmert. Eppur si muove

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 6 settembre 2007

Malgrado la loro comune fragilità, Olmert e Abu Mazen paiono aver superato molte remore, e stanno tentando di giungere ad un comune documento di principi, da presentare al summit sul Medio Oriente annunciato da Bush per metà novembre, in modo da evitare che esso si riduca ad una parata celebrativa. Lo stesso Moubarak, in questi giorni, ha ribadito a D’Alema il timore che un esito negativo del prossimo vertice provochi delusioni e alimenti l’estremismo. Anche Tzipi Livni, il ministro degli esteri israeliano, ha ribadito ieri al leader della diplomazia italiana che è meglio non alzare troppo in alto l’asta delle aspettative, per non avere delusioni e possibili contraccolpi. Tuttavia, il fatto che il premier israeliano, anche per le pressioni di USA, abbia superato il rifiuto a confrontarsi sui temi più spinosi legati al Final status, come la questione dei confini, dei rifugiati e di Gerusalemme, costituisce indubbiamente una svolta di grande interesse.

Il raggiungimento di un accordo su un “Documento di principi” è ritenuto d’altronde particolarmente importante da Washington, anche perché esso faciliterebbe e renderebbe possibile la partecipazione dell’Arabia Saudita, rafforzando così le posizioni di Abu Mazen e del premier Fayyad.

Sia i sauditi che i palestinesi, infine, insistono per coinvolgere anche la Siria nel vertice internazionale, per connetterlo in maniera più organica al Piano Arabo, che riguarda tutti gli stati in guerra con Israele e non solo la questione palestinese. La questione del mancato invito alla Siria, consono alla visione che Bush ha dell’Asse del male, costituisce certamente un problema di primo piano, anche alla luce dei positivi negoziati informali svoltisi nell’anno passato tra rappresentanti dei due paesi.

Le proposte avanzate o fatte filtrare nelle scorse settimane da parte israeliana sono diverse: la prima, elaborata dagli uffici del nuovo presidente della Repubblica, Shimon Peres (che dimostra, malgrado le proteste della destra, di voler superare i limiti di sola rappresentanza attribuiti in Israele alla sua figura), riguarda il rilascio di 11.000 prigionieri palestinesi in cinque anni, 2000 all’anno, in cambio di misure e garanzie di sicurezza da parte palestinese.

Ma da Peres è venuta anche un’altra idea più esplosiva, che tuttavia Olmert starebbe prendendo in considerazione: uno  scambio territoriale tra aree israeliane e palestinesi, in grado di compensare la parte palestinese al 100% per gli insediamenti più grandi, che Israele si vorrebbe comunque tenere.

A questo proposito, Israele avrebbe proposto che sia conteggiata anche l’area per la realizzazione del previsto salva passaggio dalla Cisgiordania a Gaza. I palestinesi riceverebbero il controllo del passaggio, ma Israele manterrebbe la sovranità su di esso. sarebbe operativo solo dopo che L’ANP abbia ripristinato il suo controllo su Gaza. (in tal modo, secondo Olmert, l’opinione pubblica a Gaza vedrebbe il Governo Hamas come un ostacolo al ripristino delle comunicazioni con la Cisgiordania).

Nelle proposte che sono trapelate (secondo quanto anticipato da Akiva Eldar, uno tra i più prestigiosi editorialisti di Haaretz), vi è anche l’ipotesi di includere nello scambio anche aree attualmente abitate da arabi israeliani: una idea avanzata tra i primi dal leader di estrema destra Avigdor Lieberman , recentemente entrato a far parte del Governo Olmert.. Ciò, tuttavia, ha suscitato la protesta delle organizzazioni degli arabi israeliani, che si sono sentiti trattati come cittadini di seconda categoria, da barattare per avere più terra. Alla base, tuttavia, vi sono anche altre considerazioni demografiche, dato che gli attuali trend demografici della popolazione araba mettono in causa la sopravvivenza del carattere ebraico dello Stato.

Un altro aspetto contenuto nelle proposte israeliane è la loro gradualità, che rilancia l’ipotesi uno Stato palestinese su basi provvisorie, che è peraltro previsto dalla seconda fase della Road Map, sulla base del vecchio piano Peres – Abu Ala, concordato a Roma alla fine del 2001.

Il punto di partenza, nel primo stadio, sarebbe infatti il muro di separazione, abbandonando comunque le aree addizionali previste per le future espansioni degli insediamenti. Questo lascerebbe il 92% della Cisgiordania ai palestinesi. L’area finale prevista per lo Stato palestinese si allargherebbe a est del muro, ma sarebbe comunque più piccola di quella prevista dagli Accordi di Ginevra (e quindi dovrebbe aggirarsi intorno al 95% del totale).

La questione è che i palestinesi, come ha più volte confermato Abu Mazen, diffidano di tale Stato provvisorio, temendo non senza ragione che esso possa divenire definitivo, eternizzando il confine di fatto creato dal muro. Potrebbero forse accettarlo solo in presenza di un accordo che renda chiari tutti i punti di arrivo del final status e di un calendario di attuazione preciso e garantito.

Per  quanto riguarda Gerusalemme, gli Israeliani prevederebbero in una prima fase di trasferire gradualmente sotto il controllo palestinese la maggior parte dei sobborghi arabi. Per la sistemazione finale della città, ci si baserebbe alle linee guida proposte da Clinton a Camp David 2: Le aree ebraiche agli ebrei e le aree arabe agli arabi. Il “bacino” dei luoghi santi della Città Vecchia sarebbe amministrato congiuntamente da rappresentanze delle tre religioni, ciascuna responsabile per i propri siti.

Per quanto riguarda i Rifugiati, Israele riconoscerebbe la sofferenza dei rifugiati palestinesi e accetterebbe indirettamente qualche responsabilità per i rifugiati del 1948. Israele prenderebbe anche parte a un  progetto internazionale volto alla riabilitazione dei rifugiati in Palestina, ed anche più specificamente in aree che Israele trasferirebbe alla Palestina nell’ambito dei previsti scambi territoriali, nonché nei diversi paesi dove attualmente i rifugiati stessi risiedono.  Le proposte israeliane si richiamano alla clausola del Piano arabo di pace che precisa che ogni soluzione del problema dei rifugiati deve essere concordata con Israele stesso.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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