L’Editoriale 

Fare i conti con la realtà

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 5 luglio 2007

Il colpo militare di Hamas, a Gaza, è stato a tutti gli effetti anomalo: si è trattato di un colpo effettuato da una forza che non aveva perso, come di consueto in questi casi, le elezioni, ma le aveva vinte. Solo che la sua vittoria era stata considerata, dalla Comunità internazionale e dallo stesso Fatah, legale ma non legittima, ed aveva prodotto un prolungato isolamento internazionale e politico verso i governanti di Hamas, ed un conseguente embargo economico.

L’accordo della Mecca dello scorso febbraio, patrocinato da Re saudita Abdullah , aveva portato alla formazione di un Governo di Unità nazionale, ma il Quartetto (USA, UE, Russia e ONU), invece che reagire positivamente alla nuova situazione, e cercare di consolidare il fragile accordo interpalestinese, aveva continuato a ripetere meccanicamente le sue tre condizioni (riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza, riconoscimento dei trattati pregressi), ignorando i sostanziali passi in avanti che pure in quello stesso accordo erano stati compiuti.

Intanto, era continuata la politica volta a fornire soldi, armi e riconoscimento politico solo ad Al Fatah, cercando di avvantaggiarlo nella mai sopita conflittualità con la formazione islamica, che veniva mantenuta ai margini: una condizione di inferiorità alla lunga intollerabile per Hamas, che considerava non ripagate le aperture politiche effettuate con l’accordo.

Questo il quadro in cui è maturata la presa di potere a Gaza, che peraltro non può che essere nettamente condannata, e che probabilmente non ha molto respiro. Che fare, in questa situazione?

Lascia perplessi la quasi euforia che si registra in molti commenti, come se oggi i problemi possano considerarsi risolti: Hamas è fuori dal governo palestinese, e quindi è possibile far cadere l’embargo e rilanciare il negoziato.

Ma vi sono due semplici domande a cui occorre rispondere: è possibile fare un accordo con Abu Mazen che riguardi solo la Cisgiordania ed escluda Gaza? È possibile fare un accordo solo con Al Fatah, escludendo Hamas?

La risposta appare negativa in entrambi i casi: nessun leader palestinese può rinunciare a Gaza, e Fatah da solo non è in grado di garantire il rispetto di qualsiasi accordo preso.

Non è un caso che la Lega Araba, e lo stesso Mubarak, moltiplichino gli appelli volti alla ripresa dei contatti tra le due maggiori formazioni palestinesi, in modo che si arrivi, per così dire, a un accordo Mecca 2. Ma quale sarebbe, in questo caso, più probabile di quanto si pensi oggi, l’atteggiamento della Comunità internazionale? Si ripercorrerebbero i miopi atteggiamenti tenuti finora?

Nel frattempo, appare ragionevole che si moltiplichino gli sforzi per concretizzare, dopo tante promesse a vuoto, effettive misure volte a costruire la fiducia, dal rilascio dei prigionieri, alla restituzione delle tasse bloccate (che pare avviata), alla liquidazione  delle centinaia di blocchi stradali interni alla Cisgiordania, alla rimozione dei cosiddetti avamposti illegali (cosiddetti perché non è che gli insediamenti possano essere considerati legali, almeno dalla Comunità internazionale), alle altre misure per facilitare il movimento dei palestinesi.

E che si raddoppino le iniziative umanitarie, a favore della popolazione di Gaza, che non deve pagare le scelte scellerate dei suoi leader.

Ma forse potrebbe anche essere il momento di rilanciare l’iniziativa sul cosiddetto “orizzonte politico” così spesso citato da Condoleeza Rice, tenendo presente un aspetto forse troppo sottovalutato dai commentatori: nello stesso accordo della Mecca, che Hamas dichiara di continuare a rispettare, vi è delega ad Abu Mazen, in quanto Presidente dell’OLP e non in quanto Presidente dell’ANP, a portare avanti il negoziato sul Final Status, salvo sottoporne l’esito a referendum, in caso di mancata approvazione da parte del Consiglio Legislativo Palestinese, controllato da Hamas.

Questo quadro potrebbe essere un punto di riferimento interessante, anche per ricomporre l’unità palestinese, e la tenuta di quel referendum potrebbe giustificare la presenza, stabilita di intesa con tutte la parti palestinesi e naturalmente israeliane, di una forza internazionale per ristabilire la fiducia, più che di una forza con mere caratteristiche militari e di sicurezza.

Il problema, a questo riguardo, è che entrambe le leadership, israeliana e palestinese, appaiono oggi troppo deboli e troppo concentrate sull’emergenza quotidiana, per affrontare una sfida come questa.

Per questo ritorna oggi la proposta di una nuova Conferenza Internazionale, dopo quella di Madrid del ’91, che riesumi questa parte della oramai defunta Road Map e svolga una funzione di accompagnamento ai partner negoziali troppo dimessi e troppo recalcitranti. Tale proposta è stata rilanciata, nei giorni scorsi, da un importante convegno promosso, a Bruxelles, dal Gruppo Socialista Europeo, e a cui ha preso parte, a nome della UE, lo stesso Solana, insieme a rappresentanti israeliani, palestinesi, siriani, giordani, egiziani e della Lega Araba.

Tale Conferenza Internazionale potrebbe basarsi sul Piano Arabo di pace, avanzato a Beirut nel 2002 e rilanciato dal recente Vertice di Ryiad: un piano che garantisce a Israele il riconoscimento da parte di tutti gli Stati arabi, in cambio della restituzione dei Territori occupati nel ’67, e la creazione di uno Stato Palestinese con capitale Gerusalemme Est, nonché una soluzione “equa e concordata” del problema dei rifugiati. Il Piano Arabo rappresenta oramai, lo si deve dire chiaramente, “l’unico gioco sul tavolo”, dopo il fallimento del processo di pace a tappe, da Oslo alla Road Map, e dell’unilateralismo sharoniano.

Ma è probabilmente necessario che la Conferenza internazionale, se si vuole evitare che si riduca all’ennesima parata senza sostanza, si svolga sulla base di una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che detti le linee guida del possibile accordo finale, partendo dal copioso materiale esistente: le precedenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, i “parametri di Clinton” del ’99, il “Verbale Moratinos” a Taba, il Piano di Pace arabo del 2002, lo stesso sia pure informale “Modello di accordo di Ginevra del 2003”.

Una variante possibile, ma non necessariamente alternativa, è quella chiamata “Syria first”: rilanciare il negoziato con la Siria, accogliendo le reiterate proposte di trattative senza precondizioni rilanciate da Damasco, proposte peraltro preparate da sostanziosi negoziati informali condotti a livelli molto alti negli scorsi mesi, e di cui ha dato dettagliata notizia il quotidiano israeliano Haaretz. Si è arrivati a ipotizzare la creazione di un parco naturale sul Lago di Tiberiade, con funzione di cuscinetto, che potrebbe facilitare la restituzione dell’intero Golan alla Siria. Una ipotesi a cui lo stesso Olmert ha sostanzialmente aperto negli ultimi giorni. Si tratta di una variante, rilanciata anche a Bruxelles dal rappresentante ufficiale siriano, cui i palestinesi guardano con una non nascosta preoccupazione, e gli USA con non superata ostilità.

Anche da questo punto di vista, una Conferenza internazionale potrebbe svolgere una funzione di raccordo tra i diversi negoziati, incluso quello con il Libano, garantendone, in mancanza di una opportuna ma improbabile simultaneità, almeno una necessaria e stretta correlazione.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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