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L’Analisi

“Siria, l’attacco americano e i nuovi equilibri”

di Valeria Giannotta

Data pubblicazione:7 aprile 2017

Il 7 aprile segna un ulteriore step che di fatto rimescola le carte nel caotico contesto siriano: gli USA di Donald Trump hanno unilateralmente lanciato missili Tomahawak su una base aerea siriana controllata dal regime di Bashar al-Assad come risposta all’attacco di gas “sarin” che ha colpito la città del nord del Paese Khan Sheikhoun vicino a Idilb, spezzando 89 vite tra cui molti bambini.

Davanti alla paralisi delle Nazioni Unite che per due volte hanno fallito a produrre una risoluzione a causa del veto russo, sono emerse divisioni anche all’interno delle coalizioni che guidano le maggiori operazioni sul campo siriano. All’interno del recente triangolo “Mosca-Teheran-Ankara” Iran e Russia sono concordi a denunciare la violazione della sovranità territoriale della Siria, inoltre Mosca auspica un ritorno della diplomazia che miri a una cordiale continuazione delle relazioni d’oltreoceano. D’altra parte la Turchia, ritornando alla dura retorica contro Assad, ha subito espresso l’urgenza di una offensiva. Secondo fonti del governo turco gli attacchi su Idilb sarebbero stati condotti da due jet siriani Su-22 che avrebbero lasciato cadere bombe al gas “sarin” su un quartiere residenziale. Tale versione contraddice di fatto quanto affermato delle autorità siriane che, negando di aver utilizzato questi armamenti, avanzano l’ipotesi dell’esplosione avvenuta all’interno di un deposito di armi chimiche usate da jihadisti affiliati ad al-Nusra.

Già in passato il regime di al-Assad ha negato qualsiasi coinvolgimento nell’uso di armi chimiche: quando nell’agosto 2013 sono state uccise centinaia di persone a Ghouta, un sobborgo di Damasco, un rapporto ONU ha stabilito che si trattava di gas “sarin” senza però definire con certezza i responsabili. Nonostante le insistenze di un certo numero di governi, incluso l’asse sunnita a guida Turchia e Arabia Saudita, l’ex presidente americano Barack Obama stabilì che la “linea rossa” – che accertasse la responsabilità di Assad e quindi cambiare i calcoli della strategia USA, avallando un intervento militare – non era stata sorpassata. Quello fu l’anno in cui lo Stato Islamico , o DAESH, ha fatto capolino in Siria dove si è registrata una seria escalation di violenza portando in campo diversi attori regionali: le Guardie rivoluzionarie iraniane e libanesi Hezbollah sono intervenuti nella lotta a favore del regime di al-Assad sotto la protezione diplomatica data da Russia e Cina nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU e la Turchia ha dovuto fare i conti sia con il crescente flusso di migranti che con l’effetto spillover delle dinamiche oltreconfine tradotte in attacchi terroristici interni a marchio PKK e DAESH.

La situazione si è poi complicata ulteriormente con l’intervento russo nel mese di settembre 2015 e, più recentemente, con l’intervento della Turchia nel mese di agosto 2016 a sostegno dell’Esercito Libero Siriano (FSA) e alla successiva triangolazione con Russia e Iran volta a garantire la sostenibilità del cessate il fuoco e la messa in sicurezza di determinate aree, che ha segnato un progressivo allontanamento di Ankara dagli Stati Uniti. Con la recente conclusione dell’Operazione Scudo Eufrate e l’uscita dal conflitto siriano sono emerse le prime discrepanze con il partner russo non solo riguardo la necessaria dipartita di Assad, questione che sembrava ormai accantonata da Ankara, ma anche e soprattutto relative ai rapporti con le Unità di protezione del popolo curdo (YPG) ossia del braccio armato del Partito dell’Unione Democratica curda (PYD), che si sono già distinte nella guerra siriana per la loro strenua battaglia contro lo Stato islamico nella città simbolo di Kobane. In vista dell’operazione su Raqqa, Washington aveva deciso di continuare a sostenere le Forze Democratiche Siriane, malgrado il malcontento di Ankara già provata dalla rinnovata intesa tra Mosca ei gruppi curdi. Nell’area di Manbij infatti sono posizionate anche le forze russe che recentemente insieme all’esercito di Damasco, hanno preso in consegna alcune postazioni prima in mano delle Unità di protezione del popolo curde (YPG). Insomma è chiaro che l’azione militare del nuovo presidente Donald Trump circa l’insostenibilità della situazione in Siria non solo segna un radicale cambiamento nell’atteggiamento degli Stati Uniti; ma suggella nuovi riallineamenti.

Mentre la comunità internazionale appare concorde a denunciare Assad e ammonisce Russia e Iran a una maggiore cautela nel dispensare supporto al regime siriano, l’ago della bilancia nello scacchiere regionale sposta le posizione degli storici partner americani, capitalizzandone il supporto. Il presidente turco Erdogan ha ben accolto l’attivismo americano e si è detto pronto a sostenere il partner oltreoceano in campagne militari che mirino a combattere il terrorismo e a destituire Assad, gli fa eco anche il primo Ministro Israeliano Benjamin Netanyahu che da voce alla possibilità di ulteriori azioni contro Paesi ostili quali Iran e Corea del Nord, e l’Arabia Saudita sempre più incline ad espandere la propria influenza sunnita nella regione. Insomma il ritorno americano a una politica di potenza in un contesto segnato da profonde frammentazioni su linee etniche, religiose e ideologiche riconduce alla questione della sostenibilità dello status quo in Siria e della sua eventuale transizione politica.

Vi sono validi presupposti per pensare che la strategia americana- per quanto ad oggi fluida e non immediatamente prevedibile- si possa basare su misure più decise, indipendentemente dall’esistenza di tregue più o meno temporanee. Il rischio tuttavia è che nel medio periodo la dipartita di Assad, che con la lunga tenuta politica e controllo del territorio rimarca la propria sovranità, riproponga dinamiche inefficaci di ricostruzione dello Stato in una regione che sta ampiamente pagando il prezzo di politiche interventiste fallimentari.

NOTE SULL'AUTORE 

Valeria Giannotta

Dopo gli studi in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali a Milano, nel 2009 Valeria Giannotta si trasferisce in Turchia per completare il dottorato sul partito Akp. Docente universitaria a Istanbul, Gaziantep ed Ankara, oggi è un’affermata esperta di dinamiche turche. Per la sua obiettività di analisi nel 2017 è stata insignita dell’onorificenza Cavaliere di Italia dalla Presidenza della Repubblica italiana. 

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