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L’Analisi

Effetto Erdogan

di Alberto Negri

Data pubblicazione: 5 novembre 2015

Perché Erdogan ha stravinto contro tutti i sondaggi? Ha fatto credere, a torto o a ragione, che la Turchia versa in stato di emergenza, che è sotto attacco: dentro da parte delle strutture “parallele” dell’ex amico l’Imam Fetullah Gulen e della guerriglia del Pkk; fuori dalla minaccia che si possa creare ai suoi confini uno stato curdo sulle macerie della Siria, che lui stesso ha contribuito a destabilizzare facendo passare migliaia di jihadisti anti-regime.

Erdogan ha saputo sfruttare queste paure indicando la sua ricetta: un uomo solo al comando e un partito solo al governo per evitare coalizioni, esecutivi deboli e inefficaci. La democrazia turca è ancora troppo giovane per non cedere alle scorciatoie proposte dall’uomo forte. Abile quindi a spaccare il Paese su fronti contrapposti ma anche a intimidire gli avversari e a riunificarlo sotto l’egida di un raìs dai tratti sempre più mediorientali e sempre meno europei, come dimostrano gli attacchi alla stampa d’opposizione.

Questa volta il presidente turco non ha brandito il Corano nei comizi come nel giugno scorso: non è stato l’Islam la chiave dalla sua vittoria ma puntare sul nazionalismo, sulla difesa della Turchia. Nelle sedi del partito islamico Akp da mesi si trasmettono canzoni patriottiche tipiche del repertorio nazionalista. Per questo ha drenato voti alla destra dell’Mhp e dei Lupi Grigi, puniti anche dal fatto di avere respinto, dopo le elezioni del 7 giugno scorso, il programma di una coalizione con l’Akp del premier Ahmet Davutoglu. Ma perde velocità e consensi anche l’Hdp dell’astro nascente Salahettin Demirtas: il suo messaggio per una democrazia inclusiva e progressista questa volta non è andato oltre l’Anatolia del Sud Est e l’Hdp ha pagato il “movimentismo” della sua base nell’Anatolia del Sud Est che ha spaventato l’elettorato curdo conservatore e religioso. Mentre al partito repubblicano Chp resta il ruolo di eterno secondo: ha una leadership assai poco carismatica e un programma politico che non esce dai confini del settore laico e kemalista.

 

Ma tutto questo non basta a spiegare il trionfo del “Sultano”. Erdogan, dal 2014 primo presidente eletto con il voto popolare diretto, è colui che rappresenta meglio di chiunque altro l’affermazione della media e piccola borghesia conservatrice musulmana dell’Anatolia, di quella gran parte del Paese per decenni esclusa dai laici repubblicani dalle stanze del potere. Difficile per questa Turchia, trasformata dall’Akp in nuovi ceti affluenti, voltargli le spalle. Erdogan rimane il simbolo di una sorta di peronismo all’islamica che non ha finito la sua lunga corsa.

L’Europa non festeggia la vittoria di Erdogan, ma tira cinicamente un sospiro di sollievo: con una leadership forte ad Ankara, questo è il ragionamento, la Turchia evita l’instabilità ed è forse più facile negoziare con lui che non con una coalizione di partiti litigiosa, anche se ovviamente ogni giorno si alza il prezzo della sua riluttante collaborazione. Ma se gli europei vogliono stabilità e un nuovo guardiano sul Bosforo c’è già un costo evidente: adeguare gli standard democratici dell’Unione a quelli di Erdogan.

 

Prima di concedere la base aerea di Incirlik agli Usa per combattere il Califfato, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha voluto mano libera contro la guerriglia curda del Pkk e per continuare ad accogliere i rifugiati dalla Siria ha ottenuto che il cancelliere tedesco Angela Merkel venisse in Turchia promettendo soldi e la riapertura del negoziato di adesione all’Ue. Al vertice sulla Siria si è piegato all’ipotesi che Assad resti in sella per un periodo transitorio: ma cosa chiederà in cambio adesso?

 

Eppure questa è sempre stata la forza della Turchia, da quando la Nato accettava senza battere ciglio la dittatura dei generali kemalisti: sfruttare la rendita della sua posizione strategica sul fianco sud-orientale dell’Alleanza. Era così ai tempi della guerra fredda quando rappresentava l’antemurale dell’Urss, lo è oggi come ultimo bastione di fronte alla disgregazione degli stati mediorientali e alle ondate di profughi dal Levante.

Le considerazioni geopolitiche non dovrebbero però occultare altri aspetti dell’Erdoganismo che non corrispondono certo ai criteri dell’Unione europea: i rapporti ambigui con l’Isil, la repressione delle minoranze come i curdi e gli ostacoli sempre più alti posti alla libertà di stampa. Argomenti assai critici sottolineati anche dagli osservatori dell’Osce che hanno definito queste elezioni “libere e corrette” dal punto di vista formale ma fortemente condizionate dall’assenza di sicurezza in molte zone curde e dai limiti evidenti affrontati nella campagna elettorale dai partiti di opposizione, oscurati sui media e nelle piazze. La Casa Bianca ha reagito dichiarando la sua “profonda preoccupazione” per la chiusura dei media e gli arresti dei giornalisti, l’Europa è stata silenziosa confermando ancora una volta che alla democrazia preferisce la “realpolitik”.

 

 

Alberto Negri è inviato speciale de Il Sole 24 Ore. Questo articolo è stato scritto per la Newsletter del CIPMO “Effetto Erdogan”.

NOTE SULL'AUTORE 

Alberto Negri

Alberto Negri è stato inviato speciale per "Il Sole 24 Ore" per il Medio Oriente, l'Africa, l'Asia centrale e i Balcani dal 1987 al 2017. Come corrispondente speciale, ha coperto la maggior parte dei principali eventi politici e di guerra degli ultimi 30 anni, dalla guerra Iran-Iraq all'Afghanistan (1994-2001-2015), dalle guerre dei Balcani a Sarajevo, Kosovo, Croazia, Serbia, a Baghdad 2003, dall'Algeria 1991 alla Siria 2011-2016, dalla Tunisia 2011 al Cairo e Tripoli 2015, la Turchia per 25 anni. In Africa ha coperto il Sudafrica, il Mozambico, l'Eritrea, l'Etiopia, la Somalia, il Kenya, il Senegal, il Mali, la Mauritania, il Marocco. Nel 2007 ha vinto un premio nazionale come reporter di guerra, nel 2009 ha vinto il premio giornalistico internazionale "Maria Grazia Cutuli", nel 2015 il premio "Colombe per la pace". È autore di saggi e libri. Il suo ultimo libro "Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente" è stato premiato con il Premio Capalbio.

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