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L’Analisi

Israele si guarda dentro

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 31 gennaio 2013

Janiki Cingoli, direttore CIPMO, intervista Nahum Barnea, tra i più noti giornalisti israeliani, che scrive per il quotidiano Yedioth Ahronoth.


Si potrebbe dire che in queste elezioni il grande perdente è stato Netanyahu, che ha guidato la lista Likud Beytenu, arrivata prima con 31 seggi, ma perdendo un quarto dei parlamentari rispetto alla precedente legislatura. Il grande vincitore è Yair Lapid, che è arrivato secondo con Yesh Adit (“C’è un futuro”), il partito-sorpresa di queste elezioni, ultra laico, che ha moltiplicato i suoi seggi ottenendone 19. Ma ora, cosa si può prevedere per il prossimo governo?

 

Il Presidente Shimon Peres inviterà tutti i leader delle liste che hanno ottenuto dei parlamentari per consultarli, da destra a sinistra, e poi darà l’incarico a Netanyahu, che avrà tempo due o tre settimane per assemblare il governo. Io penso che abbia buone probabilità di riuscirci. Il problema è quale coalizione metterà in piedi. Potrebbe formare una coalizione ristretta, di 61 o anche 63 parlamentari (se quel che resta di Kadima, crollato a due parlamentari, confluisse nel Likud), ma questa risulterebbe una coalizione troppo ristretta e debole.

Il messaggio dei votanti è stato differente, hanno premiato il nuovo partito di Lapid. Quindi Netanyahu vuole avere lui come primo partner, ma Lapid pone le sue condizioni: la prima è far ripartire il processo di pace tra israeliani e palestinesi, la seconda è la imposizione della coscrizione obbligatoria generalizzata, per il servizio militare o per il servizio nazionale civile, anche per i giovani ortodossi e per gli arabi. Ma quest’ultima richiesta creerà inevitabilmente un problema con i Partiti religiosi, sarà difficile riuscire ad averli al governo tutti insieme.

Netanyahu ha anche una terza opzione, fare il governo (oltre che Yesh Adit), con il Partito dei coloni, Habayit Hayehudi (“La casa degli ebrei”), guidato da quarantenne Naftali Bennett, che ha ottenuto 11 seggi. Io penso che Lapid gli darebbe il benvenuto e sarebbe lieto di collaborare, perché sulle questioni interne del paese è più vicino a lui che ai Partiti religiosi.

Ma è Netanyahu che non è entusiasta perché con Bennett restano rivalità e tensioni, anche di carattere emotivo, parzialmente irrisolte.

Ma con i religiosi e in particolare con il Partito religioso più forte, lo Shas (che raggruppa gli ebrei sefarditi, che provengono dai paesi arabi) vi sono possibilità di compromesso?

 

I margini mi paiono ristretti, la affermazione di Lapid è stata così forte e le aspettative createsi su questa questione della leva obbligatoria sono così alte, che sarà difficile per lui mostrarsi flessibile e accettare un compromesso al ribasso.

Bennett al contrario sulla questione della leva generalizzata è più aperto, anche se il suo partito deriva dal Partito Nazionale Religioso?

 

Si, è più aperto, su quel fronte non ci sarebbero problemi. I problemi sorgeranno se Netanyahu, seguendo l’invito di Lapid, vorrà mostrarsi più flessibile sulla questione del processo di pace. Bennett, come la componente di destra del Likud, che si è rafforzata, hanno posizioni di estrema, estrema destra, e frapporranno ostacoli di ogni genere alla ripresa del dialogo con i palestinesi.

Si può quindi prevedere una alleanza tra Lapid, Bennett e lo stesso ex Ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman? Saranno questi tre, insieme a Netanyahu, a costituire il cuore della prossima maggioranza che si sta formando?

 

Su questo terreno, della politica interna e della lotta per una maggiore secolarizzazione dello Stato, Lieberman sta spingendo per un’alleanza prioritaria con Lapid e Bennet, che rifletterebbe la  volontà dell’opinione pubblica, ma Netanyahu esita. Non lo entusiasma l’idea di includere Bennett nella coalizione, ma d’altra parte è preoccupato per il prezzo che potrebbero chiedergli i partiti religiosi, che si alza ogni giorno, perché lo sentono debole.

Alla fine, io penso che Netanyahu formerà una coalizione con Lapid e probabilmente anche con Bennet. Non è sicuro, ma questo è l’esito più probabile.

I Partiti religiosi possono accettare qualche compromesso, ma certo per loro sarà molto difficile entrare ora al governo, in questa situazione. Mi pare più probabile che scelgano di restare fuori, votare contro la leva obbligatoria, ed eventualmente entrare dopo, in seguito, a cose fatte, senza essere stati coinvolti nella decisione presa, quando si creeranno condizioni più favorevoli.

Il risultato delle elezioni non era stato previsto, ma esso deriva certamente da cambiamenti profondi della società. Quale è l’origine profonda di questi spostamenti?

 

Vi è un sentimento di rancore che pervade gli Israeliani, che sentono di sopportare un peso troppo forte, e di doverlo dividere, e questo riguarda anche alcuni settori molto influenti nella società.

Vi è il peso del servizio militare, quello del mercato del lavoro, a cui sono ugualmente estranei i religiosi delle scuole talmudiche, le yeshivot; più in generale contano i temi economici, il caro-case, il prezzo della vita. Questi settori hanno pensato che forse questa era l’ultima occasione per arrivare ad un riequilibrio dei pesi: le prossime elezioni vedranno un numero molto maggiore di parlamentari dei Partiti religiosi eletti, poiché la demografia sta cambiando a loro favore.

Ma quanto è radicata la richiesta di riaprire il dialogo con i palestinesi, anche se è stata avanzata come prima condizione da Yesh Adit? Anche sugli insediamenti, Lapid è molto cauto, non dimentichiamo che ha cominciato la sua campagna elettorale da Ariel, uno degli insediamenti più controversi.

 

Lui ha opinioni moderate sul processo di pace, simili a quelle di Tzipi Livni, ma per lui questa non è la prima priorità. Durante la campagna elettorale non ha speso una parola su questo punto: ha espresso la sua opinione sull’Iran, sulla Siria, ma su questo ha taciuto. Il suo è oramai un grande partito, ma mantiene un carattere settoriale, e dà la precedenza agli aspetti economici e sociali interni. La sua priorità è alleggerire il fardello sul ceto medio.

Quindi, riguardo al Processo di pace, da parte del nuovo governo avremo al massimo alcuni gesti, ma niente di serio?

 

Io non so dire se il futuro governo saprà essere più moderato di quello attuale, in politica estera, in realtà penso che le differenze non saranno sostanziali.

Molto dipenderà dalla chimica che si svilupperà tra Lapid e Netanyahu e dalle decisioni che prenderanno, saranno loro il perno del governo.

Israele è abbastanza isolato nell’arena internazionale, ma d’altra parte esso è il paese più evoluto e più forte dell’area: è inevitabile che sia comunque coinvolto nelle principali questioni della Regione, che riguardino l’Iran, l’Egitto o la Siria, è un attore ineludibile.

Per esempio, ora in Siria non è chiaro se le armi chimiche siano sotto controllo, o se Assad abbia perso il controllo su di loro. Ci sono contatti costanti con gli USA su questo aspetto. Occorre vedere quali saranno gli sviluppi nelle prossime settimane.

La politica estera comunque non sarà centrale nel prossimo governo, che come detto sarà molto più concentrato sugli aspetti interni.

In Israele ora il dibattito non è su sui contenuti di un possibile accordo di pace o sulla possibilità di firmarne uno, ma riguarda aspetti meno sostanziali: se Netanyahu sia stato abbastanza ambizioso o invece troppo riflessivo nel portare avanti il negoziato di pace.  Alcuni ritengono sbagliato l’atteggiamento nei confronti dell’Autorità Nazionale Palestinese, che ci sia una assoluta mancanza di contatti con loro, che i rapporti siano gestiti pressoché esclusivamente attraverso l’esercito, temono che questa situazione possa dare adito a una nuova intifada, c’è paura per il crescente isolamento internazionale di Israele.

In qualche modo esemplare è stata la questione degli insediamenti. Netanyahu ha capitolato di fronte alla pressione dei coloni, accettando di costruire alte migliaia di abitazioni nel cuore della Cisgiordania, anche per rincorrere Bennett sul suo terreno. Ma questo è stato vissuto male dall’opinione pubblica, che vede con sfavore le enormi spese sostenute per l’espansione degli insediamenti e per la loro sicurezza, a fronte del crescente disagio sociale interno.

Ma l’atteggiamento della leadership USA potrebbe introdurre elementi di movimento?

Il nuovo Segretario di Stato USA, John Kerry, sarà probabilmente molto più attivo, e ha molte ambizioni, e dichiara di voler cambiare i parametri del conflitto. Penso che lui cercherà davvero di farlo, ma non so se anche Obama vorrà farlo e gli andrà dietro, dopo le esperienze negative del primo mandato. Gli USA ora devono compiere un riassetto della loro politica rispetto al processo di pace in Medio Oriente. Non è escluso che, se questo processo andrà abbastanza avanti, possano prendere qualche iniziativa più stringente, anche arrivando a favorire l’adozione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU con l’indicazione vincolante delle linee guida di una possibile soluzione del conflitto. Questo rappresenterebbe certamente un elemento di novità davvero radicale.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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