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L’Analisi

Le incognite del dopo ritiro

di Ugo Tramballi

Data pubblicazione: 6 luglio 2005

Il vero problema non sarà durante ma dopo. Non il 17 agosto o il giorno che Ariel Sharon riterrà il più opportuno per iniziare il disimpegno; non quando il Paese vivrà un momento decisivo della sua storia, rinunciando a un’ambizione territoriale, rischiando uno scontro civile, esponendosi al pericolo di un’offensiva degli estremisti palestinesi. Per quanto nessuno, oggi, sia disposto a scommettere su ciò che avverrà in quei giorni, la società israeliana sta lentamente assimilando come un male necessario il ritiro da Gaza e l’abbandono di alcuni insediamenti nella Cisgiordania del Nord. Anche i sondaggi più pessimistici – Israele sta nevroticamente vivendo sui sondaggi in questa fase della sua vita collettiva – spiegano che se diminuisce il consenso per il disimpegno, non sale il dissenso. La gente è semplicemente disorientata. A parte gli estremisti e Bibi Netanyahu che, come sua natura, fa dei calcoli politici sul suo futuro nel Likud, il movimento dei coloni ha deciso di opporre più una resistenza d’ufficio che ideologica: hanno capito che il ritiro è ormai agli atti e che è difficile opporsi alla determinazione di Ariel Sharon. Anche Yesha, l’organizzazione dei settlers, pensa al dopo. Quando tutto sarà finito, infatti, e il Paese dovrà rimarginare le ferite leggere e grandi lasciate dal disimpegno, Israele dovrà decidere le sue frontiere e il suo futuro. Fra Yesha che conta di non dare altra terra ai palestinesi, e la Jihad islamica che definisce Tel Aviv “terra occupata dai sionisti”, ci sono molte altre aspettative più autorevoli e realiste.

C’è un grande dilemma che da mesi preoccupa l’amministrazione Bush, l’Europa e gli altri due partners minori del Quartetto, Onu e Russia; l’Egitto e il resto del Mondo arabo, la Banca Mondiale e tutti gli altri donatori multinazionali e bilaterali della ricostruzione palestinese. Cosa farà Sharon dopo il disimpegno da Gaza? Riterrà di aver fatto l’ultima delle sue concessioni o quel ritiro sarà l’inizio del riassetto territoriale invocato da tutte le risoluzioni mai adottate e dai piani di pace lasciati incompleti? Il cammino della trattativa sarà ripreso o la Road Map è già morta?

Riconoscendo l’importanza del gesto di Sharon e le difficoltà che comporta evacuare degli insediamenti, la comunità internazionale è stata molto comprensiva con Israele, in questi ultimi tempi. Non ha più sollevato la questione politica e morale del Muro, non ha chiesto di riprendere in mano la Road map nè tentato di avere garanzie su ciò che accadrà dopo. L’ottimismo tenta di prevalere ma nessuno nasconde la laura che Sharon, ritiratosi da Gaza, ritenga esaurita la parte israeliana della trattativa di pace. Ehud Olmert, l’ex sindaco muscoloso di Gerusalemme, uno dei vice premier e ora uno dei principali sostenitori del compromesso con i palestinesi, è diventato una specie di portavoce ufficioso o di lettore del pensiero di Sharon. A maggio, al World Economic Forum mediorientale sulla sponda giordana del Mar Morto, Olmert aveva sostenuto che disimpegno da Gaza e Road Map sono due cose diverse: il primo, in sostanza, è un atto unilaterale israeliano, deciso “valutando esclusivamente l’interesse nazionale dello Stato e del popolo ebraico”. Non ci fosse stata la Road Map, Israele avrebbe lasciato comunque la striscia e gli altri quattro insediamenti isolati al Nord. Il processo di pace è un altro capitolo che Israele affronterà una volta conclusa l’operazione. “Non potete chiedere a un Paese di fare troppe cose, così importanti, in una sola volta”, spiegava Olmert. Qualche giorno fa su “Yedihot Ahronoth”, Nahum Barnea, il più famoso dei giornalisti israeliani, raccontava che in consiglio dei ministri Bibi Netanyahu aveva curiosamente sostenuto che sospendere il ritiro da Gaza avrebbe migliorato i rapporti fra
Israele e Stati Uniti. Barnea, invece, spiegava che l’Anti-Defamation League di New York aveva condotto un sondaggio dal risultato molto diverso.

Intervistando ebrei conservatori e progressisti, repubblicani e democratici, neo-cons e liberals, cattolici, protestanti, ispanici e neri, è venuto fuori che il 12% degli americani è convinto che il ritiro da Gaza sia “una capitolazione al terrorismo”; il 79% che si tratta invece di “un passo coraggioso che farà avanzare il proceso di pace”. Senza attendere il sondaggio dell’Anti-Defamation League, Ariel Sharon sapeva già cosa si attende l’amministrazione Bush, dopo il disimpegno da Gaza: la ripresa della Road Map, un pilastro della politica mediorientale americana, non meno
essenziale della stabilizzazione irakena e della diffusione della democrazia nel Mondo arabo. E dopo le sue convinzioni su cosa sia giusto per la realizzazione del sionismo, a una sola altra cosa Sharon è fedele: l’obbligo d’Israele di avere l’America dalla sua parte.

NOTE SULL'AUTORE 

Ugo Tramballi

Inviato speciale de Il Sole 24 Ore e responsabile del blog http://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/ 

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