L’Editoriale

Istanbul colpita mentre festeggia accordo con Israele

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 29 giugno 2016

Il sanguinoso attacco terroristico all’aeroporto di Istanbul coglie la Turchia di sorpresa, proprio mentre stava festeggiando l’accordo raggiunto con Israele, e sottolinea la persistente vulnerabilità del paese. L’accordo, firmato a Roma, segna la fine del contenzioso tra i due paesi, durato sei lunghi anni dopo l’arrembaggio israeliano alla nave turca “Mavi Marmara”, che cercava di rompere il blocco imposto da Israele su Gaza, e che causò la morte di 9 attivisti, 8 turchi e 1 turco-americano. Il tempo impiegato per arrivare alla firma dimostra quanto profonde fossero le difficoltà da superare, legate in primo luogo alla difesa dell’orgoglio nazionale delle due parti.

La riparazione di 20 milioni di dollari per i familiari delle vittime, che Israele verserà ad un fondo speciale preposto a tale compito, sta già aprendo un dilaniante dibattito all’interno di Israele, ove la destra di governo (guidata da Avigdor Lieberman e Naftali Bennet), si unisce alle critiche provenienti dal leader laburista Isaac Herzog, nell’accusa di piegarsi a rimborsare i familiari di coloro che essi definiscono terroristi, aggressori dei soldati israeliani che compivano il loro dovere.

Per converso, la Turchia rinuncia a chiedere la rimozione totale del blocco di Gaza, accontentandosi della garanzia d poter far pervenire aiuti alla popolazione della Striscia attraverso il porto israeliano di Ashdot, e di potervi costruire importanti infrastrutture civili.

Chi ne esce meglio è indubbiamente il leader turco Erdogan, che ha incassato prima la telefonata di scuse di Netanyahu, propiziata dal Presidente Obama durante la sua visita in Israele del 2013, poi il consistente atto riparatorio verso le famiglie, e può affermare di aver tutelato la dignità nazionale e di sostenere concretamente la popolazione di Gaza.

Ma l’accordo in realtà era necessario ad entrambe le parti: la Turchia è per Israele un anello fondamentale nell’arco di alleanze che esso sta costruendo con l’intero arco sunnita, in funzione anti iraniana, anche se rispetto all’Iran l’atteggiamento turco è ambivalente, di scontro rispetto alla Siria ma di forte partnership economica e commerciale. Soprattutto, la Turchia è un gigante economico, un essenziale mercato di sbocco per la raffinata tecnologia israeliana, e un partner militare storico: anche se la annunciata ripresa della cooperazione militare e di intelligence stenterà probabilmente a prendere slancio, dopo tanti anni di scontri e di reciproca sfiducia, ed anche per la generale doppiezza della politica estera turca. Basta considerare i suoi stretti rapporti con Hamas, il cui ufficio di rappresentanza a Istanbul resterà aperto malgrado le pressioni di Israele, pur se dovrà assumere una funzione di rappresentanza politica e diplomatica, con il taglio delle attività a carattere militare o terroristico. Per Israele si tratta di un rospo da ingoiare, anche se avere un canale di contatto con Hamas può tornare utile, per il recupero dei due prigionieri civili israeliani e dei due militari deceduti, ancora nelle mani della organizzazione islamica, ed anche per cercare di evitare nuove escalation e confronti militari, che molti prevedevano come probabili per questa estate.

Hamas esce certamente rafforzato dall’accordo, l’afflusso degli aiuti turchi stabilizzerà il suo regime a Gaza, la sua rappresentatività a livello internazionale riceve nei fatti un avallo non secondario. In realtà, Israele preferisce che a Gaza resti al potere proprio Hamas, perché ritiene che l’alternativa possibile siano solo le formazioni jihadiste legate all’ISIS e ad Al Qaeda, che hanno già dato segni di presenza e di rafforzamento nella Striscia, in collegamento con la guerriglia in corso nel Sinai. Inoltre, è oramai palese la preferenza di Israele per la permanenza di due diverse e divise entità palestinesi, con Hamas che svolge sul terreno una funzione tampone verso le formazioni più estremiste, in qualche modo analoga a quella che la polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese svolge in Cisgiordania, in collaborazione con i servizi di sicurezza israeliani, per evitare l’ulteriore espansione di Hamas.

Quanto alla Turchia, come ha ammesso pubblicamente Erdogan nei mesi scorsi, Israele è un partner essenziale, sia per il suo know how tecnologico ed anche militare, sia e forse soprattutto per gli enormi giacimenti di gas scoperti al largo delle sue coste, preziosi per Istanbul dopo la crisi determinatasi con la Russia, in seguito all’abbattimento del suo aereo diretto in Siria, con la conseguente interruzione delle forniture di prodotti petroliferi alla Turchia, di cui Mosca era una fornitrice primaria. E’ sintomatico che proprio in questi giorni sia giunta la notizia di una simmetrica iniziativa turca volta a ricucire lo strappo determinatosi con la Russia, riconoscendo l’errore commesso e dichiarandosi pronti a risarcire il danno prodotto.

I vastissimi giacimenti di gas scoperti al largo delle coste israeliane, cipriote ed egiziane, e già individuati al largo delle coste libanesi e di quelle di Gaza, costituiscono d’altronde un enorme fattore di cambiamento, destinato ad incidere in profondità nell’evoluzione dei rapporti tra i principali player dell’Area e sull’intero quadro regionale.

Infine, bisogna essere consapevoli che l’iniziativa del Governo israeliano, per superare il tradizionale isolamento internazionale del paese, sta raccogliendo successi sostanziali: si pensi alla già ricordata alleanza informale con i paesi a direzione sunnita, guidati dall’Arabia saudita, oltre a quella conclamata con l’Egitto. Vanno inoltre rinforzandosi i rapporti con la Russia (Netanyahu negli ultimi mesi ha incontrato due volte Putin), e quelli tradizionali con la Grecia. Nuovi canali si spalancano con l’India, il cui nuovo Premier Narendra Modi pare molto più interessato alla tecnologia israeliana che alla soluzione della questione palestinese; la stessa tendenza, meno dichiaratamente, vale per la Cina. Fortissimi poi sono i legami con i paesi emergenti del Centro Africa, ove le innovative tecnologie israeliane nel campo agricolo e in particolare nell’irrigazione sono ricercatissime: una strada di collaborazione che è stata aperta proprio da Avigdor Lieberman, quando era Ministro degli Esteri, con una fortunata serie di missioni mirate nell’area.

Restano, certo, i dissapori con gli USA e con la stessa Europa, resta l’iniziativa Francese per rilanciare il negoziato con i palestinesi, ora fatta propria dalla UE: ma, sembra pensare Netanyhau, “Can che abbaia non morde”. Forse può sbagliare anche lui, qualche sorpresa può ancora venire al termine del mandato di Obama. Ma questo è il quadro internazionale di riferimento del leader israeliano.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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