Data pubblicazione: 5 luglio 2007
“Orizzonte Politico”. Un’altra di quelle definizioni famose create da un processo di pace che se ha ottenuto scarsi risultati pratici è almeno dotato di grande fantasia. “Orizzonte Politico”: come “Gaza e Gerico First”, “Roadmap”, “Quartetto”. Parole e frasi d’effetto come “Last, just and comprehensive peace”, “Pace dei coraggiosi”, “Soluzioni ad interm”, “Confindence building”, “Ridispiegamento”, “Ritiro unilaterale”, “Conflitto a bassa intensità”. In circa 16 anni a partire dalla Conferenza di Madrid, ottobre 1991, questo processo non ha fatto altro. Oltre a un uso sfrenato di neologismi negoziali e bellici, raramente è riuscito a farsi largo tra i conflitti che doveva impedire. Una palestra per i diplomatici e una causa di disperazione per chi nella vita tenderebbe all’ottimismo.
“Orizzonte politico”, come definizione, l’ha creata George Bush: finalmente intuendo che senza dire ai palestinesi cosa avranno alla fine del processo di pace, difficilmente si convinceranno a terminare la loro lotta armata, per quanto inutile essa dimostri di essere. Ai più sembrerà banale che chi negozia debba sapere dove vuole arrivare. Ma nella questione israelo-palestinese aver raggiunto questo punto è ai limiti del rivoluzionario. Dei tanti protagonisti che ha avuto questo processo, Bush è stato il primo a parlare di “Stato Palestinese”. Nessun documento ufficiale di Oslo lo menziona: Yitzhak Rabin si limitò a riconocere il diritto dell’Olp di rappresentare il “popolo palestinese”. Nè alcuna dichiarazione scritta di Camp David fa cenno dell’ovvio risultato finale che dovrebbe raggiungere questo conflitto. Come se “Stato Palestinese” fosse un tabù scandaloso al quale tutti pensavano ma del quale nessuno poteva parlare.
Ora invece se ne parla molto. Lo ha menzionato Ariel Sharon e lo ripete Ehud Olmert. Ne parlano diffusamente al Dipartimento di Stato americano e gli altri tre negoziatori del Quartetto: Europei, Onu e russi. Non c’è dibattito sul conflitto israelo-palestinese organizzato da Ngo, università, organizzazioni pacifiste e religiose che non abbia nel titolo “Stato Palestinese”: quando nascerà, come sarà, chi lo guiderà con quali politiche e quali soldi.
Non avendo la gran parte dei diplomatici nè degli oratori alcuna esperienza diretta sul campo, quasi nessuno si rende conto di parlare del nulla: di qualcosa che già oggi e forse da qualche tempo, probabilmente non nascerà mai. Il colpo finale alle speranze palestinesi lo hanno dato gli stessi palestinesi, creando due ipotetiche Palestine: quella dell’Ovest, islamica, a Gaza; quella dell’Est, genericamente moderata, in Cisgiordania. Due Palestine praticamente in guerra fra loro per un potere che non possiedono. Ma la guerra civile fra Hamas e Fatah è stata solo il colpo mortale a qualcosa che non esisteva già più.
Andate sul campo a vedere cosa ne è della Palestina. Immaginatevi palestinesi e cercate di andare da Nablus a Jenin; provate ad essere un imprenditore o un contadino che deve portare la sua merce da Hebron a Betlemme; essere pendolare, studente o pellegrino che da Ramallah vuole raggiungere Gerusalemme Est araba. Scavalcando il Muro e i sotto-muri del Muro, i posti di blocco, le strade aperte solo ai coloni, la burocrazia militare israeliana, le chiusure stabili e quelle improvvise, imposte all’ultimo momento a causa di un’operazione di sicurezza o un allame terroristico. Non ci riuscirete e alla fine smetterete di provarci, restando ingabbiati nel vostro villaggio o città.
Gli israeliani non hanno alcuna pratica intenzione di veder nascere uno “Stato Palestinese”. “Soluzione di due Stati, uno per gli ebrei e uno per gli arabi, uno accanto all’altro in pace e sicurezza” è solo un’altra di quelle belle frasi della diplomazia, un pio desiderio. Il mondo parla di ritiro degli insediamenti ebraici in Cisgiordania mentre gli israeliani non hanno nemmeno interiorizzato la necessità di congelare almeno l’espansione delle colonie esistenti. Dopo il ritiro da Gaza nell’agosto 2006 – deciso per motivi di sicurezza e per ridurre lo squilibrio demografico a favore degli arabi nei territori controllati da Israele – i palestinesi avrebbero potuto provare a creare un embrione di Stato. Gli aiuti economici internazionali per provarci, c’erano. Ma i palestinesi hanno ottusamente preferito riprendere a lanciare missili Kassam su Israele. Il fallimento di Gaza ha solo rafforzato la convinzione israeliana dell’impraticabilità di uno Stato palestinese.
L’attuale governo israeliano è debolissimo: potrebbe cadere già ad agosto dopo l’uscita del rapporto finale della commissione Winograd sugli errori della guerra in Libano. Forse le prossime elezioni le vincerà il Likud di Bibi Netanyahu. Ma se anche vincesse il Labour di Ehud Barak, in tempi prevedibili nessun esecutivo sarebbe così forte da avere il coraggio di rinunciare alle tradizionali prorità di sicurezza e dare alla pace una possibilità. Nessuno evacuerà altri insediamenti la gran parte dei quali sono ormai città vere. In questi giorni, nonostante quello di Abu Mazen in Cisgiordania sia un “governo amico”, gli israeliani hanno continuato ad eseguire i loro omicidi mirati e i loro arresti. Nè Abu Mazen, al quale Israele non ha mai dato una possibilità per diventare un interlocutore credibile, avrà mai la forza d’imporre una sola polizia, un solo centro decisionale al rissoso Fatah e alle sue numerose fazioni armate. Ci si può sempre attrezzare per un miracolo, ma è meglio non contarci troppo.
NOTE SULL'AUTORE
Ugo Tramballi
Inviato speciale de Il Sole 24 Ore e responsabile del blog http://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/
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