Home ≫ ANALISI

L’Analisi

Gli Usa e il conflitto tra sciiti e sunniti

di Alberto Negri

Data pubblicazione: 15 maggio 2007

L’esito dello scontro tra sciiti e sunniti deciderà il destino non soltanto dell’Iraq, il primo stato arabo a predominio sciita, ma di tutto il Medio Oriente. E’ questa la tesi di Vali Nasr, professore americano di origine iraniana, esposto nel libro “The Shia Revival”, da poco tradotto anche in italiano da Ponte alle Grazie. Il risveglio sciita è in larga misura ispirato dalla rivoluzione khomeinista, che per la prima volta attrae settori importanti del mondo arabo e sunnita ed estende la sua area di influenza oltre i tradizionali confini confessionali del mondo musulmano.

L’Iran può così diventare oggi, anche sul piano politico, quello che non fu mai quando l’Imam era in vita: una grande potenza regionale. Il riconoscimento americano di questo status è essenziale per le ambizioni iraniane. Al vertice di Sharm el Sheikh sull’Iraq, dove in un’atmosfera torrida si aspettava l’incontro tra l’Iran e gli Stati Uniti, le attese sono andate deluse. Le cronache hanno inseguito una signora in rosso, una violinista russa con un abito troppo sgargiante e succinto, secondo i severi standard della Repubblica islamica iraniana, che con la sua presenza alla cena di gala avrebbe fatto saltare il faccia a faccia tra il segretario di Stato Condoleeza Rice e il ministro degli Esteri di Teheran Manouchehr Mottaki.

In realtà l’incontro tra Stati Uniti e Iran – sarebbe stato il primo dopo quasi trent’anni di relazioni diplomatiche interrotte – è sfumato perché in Egitto è andata in scena, ancora una volta, la contesa tra Washington e Teheran.

In questo duello la secolare contrapposizione tra sciiti e sunniti sembra assumere un ruolo sempre più decisivo. Quali sono le conseguenze per la politica internazionale? Secondo Seymour Hersh, uno dei più famosi giornalisti americani, che rivelò gli scandali di My Lai in Vietnam e quello di Abu Ghraib a Baghdad, in questi ultimi mesi, con il progressivo deteriorarsi della situazione in Iraq, l’amministrazione Bush ha dato una svolta decisa alla sua strategia in Medio Oriente, sia nella diplomazia ufficiale sia nelle operazioni clandestine. Questa “sterzata” – così la definiscono alla Casa Bianca – ha avvicinato gli Stati Uniti a uno scontro aperto con l’Iran e li ha portati a intromettersi nel conflitto tra sciiti e sunniti.

Per contrastare l’Iran la Casa Bianca ha quindi deciso di rivedere le sue priorità. L’amministrazione Bush – in collaborazione con l’Arabia Saudita, paese a maggioranza sunnita – conduce da tempo operazioni clandestine in Libano per indebolire gli Hezbollah, il partito di Dio sciita appoggiato dall’Iran. Inoltre gli Stati Uniti hanno preso parte ad altre azioni contro l’Iran e la Siria, storica alleata di Teheran. Queste attività, riporatte dalla stampa americana e araba, hanno avuto come effetto collaterale quello di rafforzare i gruppi estremistici sunniti che concepiscono l’Islam come una religione militante, sono ostili all’America e simpatizzano con al Qaida. Ma la nuova strategia statunitense ha un aspetto contraddittorio: in Iraq le violenze contro i militari americani sono commesse soprattutto dai gruppi sunniti, non dagli sciiti. E la conseguenza più rilevante (e indesiderata) della guerra in Iraq è stata un rafforzamento dell’Iran.

Quando la rivoluzione khomeinista del 1979 ha portato al potere un governo religioso, gli Stati Uniti hanno interrotto i rapporti con l’Iran e hanno cercato relazioni più strette con i leader degli stati arabi sunniti, come la Giordania, l’Egitto e l’Arabia Saudita. Ma le manovre di Washington, soprattutto nei confronti dell’Arabia Saudita, sono diventate più complicate dopo l’11 settembre, perché al Qaida è sunnita e molti dei suoi militanti provengono da circoli religiosi estremistici con base in Arabia Saudita.

Prima dell’invasione dell’Iraq, nel 2003, alcuni esponenti dell’amministrazione Bush, hanno elaborato questa tesi: poiché Saddam Hussein aveva oppresso gli sciiti, cioè la maggioranza della popolazione, agli americani conveniva instaurare in Iraq un governo sciita per bilanciare l’estremismo sunnita. Così Washington ha ignorato gli avvertimenti dell’intelligence sui legami tra i leader sciiti iracheni e l’Iran, dove molti di loro avevano vissuto in esilio per anni. Intanto l’Iran ha allacciato rapporti molto stretti con il governo iracheno, a maggioranza sciita, guidato dal premier Nouri al Maliki. Fino ad arrivare a un altro paradosso: Washington e Teheran sono i maggiori sostenitori, anche dal punto di vista finanziario, dello stesso governo iracheno.

Questo paradosso potrebbbe non durare a lungo. Condoleeza Rice ha dichiarato che “in Medio Oriente sta avvenendo un riallineamento strategico” che consente dì distinguere i “riformatori” dagli “estremisti”. Ha anche sostenuto che i Paesi sunniti sono esempi di moderazione, mentre l’Iran, la Siria e Hezbollah stanno “dall’altra parte” (la minoranza al potere a Damasco è alauita, una corrente dell’Islam legittimata dagli sciiti). L’Iran e la Siria, ha aggiunto Rice, “hanno fatto la loro scelta, e questa scelta è la destabilizzazione”.

Qual è allora la “sterzata” imposta da Washington? Seymour Hersh afferma che esiste un’agenda riservata, con operazioni segrete realizzate o finanziate dai sauditi. I personaggi chiave dietro questa sterzata strategica in Medio Oriente sono il vicepresidente Dick Cheney, il viceconsigliere per la sicurezza nazionale Elliott Abrams, l’ex ambasciatore statunitense in Iraq, Zalmay Khalilzad e il principe Bandar bin Sultan, consigliere per la sicurezza nazionale del governo saudita. Condoleezza Rice si è impegnata nella definizione della politica estera ufficiale, ma le operazioni clandestine farebbero capo a Cheney che forse non acaso si è appena recato in missione a Baghdad. Un altro effetto di questa svolta è stato includere l’Arabia Saudita e Israele in un nuovo abbraccio strategico, visto che per entrambi l’Iran è una minaccia alla loro stessa esistenza. Così Riad e Gerusalemme sono state coinvolte in colloqui diretti, e i sauditi – convinti che una maggior stabilità in Israele e Palestina contrasterebbe l’influsso iraniano nella regione – hanno aumentalo l’impegno nelle trattative arabo-israeliane.

Questa lettura coincide con i timori dei Paesi arabi sunniti, preoccupati da un rafforzamento degli sciiti. I conflitti di origine confessionale, più o meno simili a quelli in Iraq, secondo molti osservatori, costituiranno la frattura più importante nella politica del Medio Oriente. E gli Stati Uniti si stanno inserendo in questa situazione. Lo stesso Vali Nasr, sostenitore dei confronti dell’Iran della via del containment e del dialogo, afferma che nel governo americano si è svolto un ampio dibattito su quale sia il pericolo maggiore: l’Iran o gli estremisti sunniti. “Secondo i sauditi e secondo alcuni esponenti dell’amministrazione Bush – dice Nasr – la minaccia più grave viene dall’Iran, mentre i sunniti radicali sono un nemico minore. E una vittoria della linea saudita”.

Ma le cose stanno davvero così? I richiami sempre più frequenti all’aumento dell’influenza iraniana e della “mezzaluna sciita”, in ascesa dal Libano all’Iraq all’Afghanistan, sono visti nel mondo arabo in modo diverso che a Washington e in Occidente. Interessante l’opinione dello scrittore libanese Jihad Azine che qualche tempo fa sul quotidiano An-Nahar metteva in discussione le ragioni che spingono gli Stati Uniti ad alimentare il conflitto confessionale: “Può darsi – scriveva Azine – che il gioco finale degli Stati Uniti sia quello di indebolire l’Islam dall’interno”. Questo sarebbe il vero significato della “sterzata strategica” di Washington: c’è da sperare soltanto che, questa volta, non conduca diritti veso un altro caos mediorientale.

NOTE SULL'AUTORE 

Alberto Negri

Alberto Negri è stato inviato speciale per "Il Sole 24 Ore" per il Medio Oriente, l'Africa, l'Asia centrale e i Balcani dal 1987 al 2017. Come corrispondente speciale, ha coperto la maggior parte dei principali eventi politici e di guerra degli ultimi 30 anni, dalla guerra Iran-Iraq all'Afghanistan (1994-2001-2015), dalle guerre dei Balcani a Sarajevo, Kosovo, Croazia, Serbia, a Baghdad 2003, dall'Algeria 1991 alla Siria 2011-2016, dalla Tunisia 2011 al Cairo e Tripoli 2015, la Turchia per 25 anni. In Africa ha coperto il Sudafrica, il Mozambico, l'Eritrea, l'Etiopia, la Somalia, il Kenya, il Senegal, il Mali, la Mauritania, il Marocco. Nel 2007 ha vinto un premio nazionale come reporter di guerra, nel 2009 ha vinto il premio giornalistico internazionale "Maria Grazia Cutuli", nel 2015 il premio "Colombe per la pace". È autore di saggi e libri. Il suo ultimo libro "Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente" è stato premiato con il Premio Capalbio.

Leggi tutte le ANALISI